Sono mesi oscuri per la Turchia. Una fitta cappa di terrore s’infittisce nell’indifferenza o semplicemente nella presa d’atto – da parte dell’Unione europea in primis – che più di tanto non si può intervenire. Una realpolitik penosa e rischiosa per le stesse sorti dell’Europa. A prevalere nella sua storia recente sono le più tortuose e oscure pulsioni antidemocratiche e autoritarie. A partire dal tentato colpo di stato del luglio 2016, in Turchia non smettono di manifestarsi fenomeni a dir poco allarmanti. L’arresto indiscriminato di migliaia di persone, tutti oppositori politici; la loro detenzione nelle fetide carcere turche senza alcuna garanzia di un giusto e sollecito processo; la chiusura di organi di stampa e radio-tv; la recrudescenza della persecuzione contro la minoranza kurda, e infine il finanziamento indiretto del fondamentalismo di matrice jhiadista: sono tutti segnali d’allarme che ci dicono dove sta andando la Turchia di questo sultano-dittatore che è Recep Tayyip Erdogan. Che nei confronti dell’Europa può usare la spada di Damocle della “bomba” dei migranti che trattiene nei campi profughi, finanziato dai 7 miliardi di euro che ogni anno gli vengono elargiti.
La Turchia rischia davvero di precipitare nelle pieghe dell’islam più radicale e oscurantista e di abbandonare (definitivamente?) le sponde europee. Sono molti oggi che – sulle rive del Bosforo – presagiscono, anzi, auspicano un ritorno al sistema ottomano, la Turchia come guida spirituale e militare (qui i due termini non vanno scissi) del mondo islamico mettendo in soffitta per un bel po’ i principi di laicità e di demo-crazia di quello che è ancora considerato il padre della Turchia moderna, cioè Mustafa Kemal Ataturk, la persona che riuscì a costruire la repubblica sulle macerie dell’Impero ottomano, nei primi decenni del Novecento. Come uscirne?
La scrittrice
Lei si chiama Asli Erdogan. Solo una casuale omonimia, nessuna parentela o affinità col dittatore-padrone della Turchia di oggi, Recep Tayyip Erdogan. Cinquant’anni, donna dolce e determinata, implacabile accusatrice delle malefatte del regime, scrittrice di talento (un fraseggio fluido, storie affascinanti tra fantasia e realtà), Asli, a causa della sua battaglia per la libertà è stata in carcere per 136 giorni, poi liberata sull’onda di uno sdegno internazionale. La sua è la sola “forza dei pensieri” – una forza purissima, una tenacia persistente – e lo dimostra ampiamente nel suo ultimo libro (Neppure il silenzio è più tuo, Garzanti, pag. 144, euro 15, traduzione di Giulia Ansaldo) che prende il titolo da una poesia del poeta greco Sefèris. “Fintanto che questa mia spaventosa storia non verrà raccontata, questo cuore che ho dentro continuerà a bruciare”. Asli racconta, tra l’altro, dei militari turchi di guardia alla frontiera che non lasciano ricoverare i feriti della città martire di Kobane mentre transitano senza alcun impedimento i carichi di armi di ogni tipo destinati ai “boia vestiti di nero”, i taglia gola dell’Isis. E’ un libro duro, questo di Asli Erdogan, un pugno in faccia: donne violentate, ragazzine stuprate, un realismo che è una battaglia per la verità, perché si sappia quello che succede. Assassinii continui e nessuno sa, o finge di non sapere, braccia e gambe spezzate e buttate nei cassonetti della spazzatura, cecchini “ebbri delle pene inflitte” (non a caso, spesso si drogano prima di esercitarsi al “tiro al bersaglio”). Umanità, dove sei finita? Si chiede Asli Erdogan. E citando il grande Paul Celan: “la morte è come un maestro che gioca con i serpenti”.
Lo scrittore
E’ l’autobiografia di un uomo e di una città, Istanbul. Un racconto di ricordi, vecchie fotografie e cartoline. L’autore è Orhan Pamuk e la sua è una lunga, dolente, malinconica pure, ricognizione della sua città natale, la Istanbul della sua adolescenza, oggi irriconoscibile senza quei posti cari oggi scomparsi e distrutti dal progresso e dalle ristrutturazioni. E’ monumentale il suo ultimo libro (Istanbul. I ricordi e la città, Einaudi, pag. 661, euro 45, traduzione di Semsa Gezgin) non solo per le 435 immagini e foto che lo costellano ma per la ricchezza, un vero profluvio, di idee e ricordi che lo scandiscono. E cita Ahmet Rasim: “La bellezza del panorama è nella sua tristezza”. La bellezza di ogni cosa – un paesaggio, un volto, una persona – sta nei sentimenti che suscita e per Pamuk la bellezza dell’Istanbul di alcune decine di anni fa (lo scrittore è nato nel 1952) risiedeva proprio in una certa tristezza, per lui una sorta di “indice dei sentimenti”. Dice: “No, non mi piace affatto questa nuova Istambul che ha distrutto i miei ricordi. Oggi la città è più ricca, ma meno libera”. Meno libera, sotto Erdogan. E’ cambiata l’architettura, l’economia, tutto com’è anche naturale che sia. Ma per lo scrittore “ora che i suoi abitanti inseguono il successo” tutto è cambiato e non in meglio. “Oggi a Istanbul non c’è più libertà di pensiero e di parola, di libera espressione, devi guardarti alle spalle, e questo mi rende arrabbiato, triste, confuso”. La storia d’amore del libro è quella tra Kemal e Fusun, l’innocenza di due giovani che camminano per la città in bianco e nero, sognando a occhi aperti. La realtà è ben diversa. Un’ora buia.
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