Negli ultimi quattro anni nella selva amazzonica con il popolo mojeno minacciato di estinzione
Per 26 anni sulle Ande boliviane – lande desolate e deserte, abitate da minuscole comunità disperse – e ora da 4 anni nella selva amazzonica con il popolo mojeno minacciato di estinzione perché lo si priva della sua terra, in modo surrettizio, capzioso e proprio da parte di un governo “amico”, quello dell’indio cocalero Evo Morales.
E’ tutta in quest’arco temporale e in questi territori di frontiera – sempre a fianco dei più dimenticati, dei figli di un dio minore, dei “selvaggi”, così vengono chiamati gli indios della selva che ostinatamente vogliono continuare a vivere lì, tra foreste e fiumi come uniche strade di comunicazione, conservando il proprio stile di vita libero – è tutta qui, da ormai tanti anni – trent’anni – la vita e la testimonianza cristiana di padre Fabio Garbari, trentino di Trento, una laurea in veterinaria, una possibile brillante carriera e poi invece la scelta definitiva della Bolivia, “stregato” dal monito evangelico “chi vuol perdere la propria vita, la ritroverà”.
Bella e densa la serata organizzata dagli “Amici di padre Fabio” a Villa Sant’Ignazio lunedì 11 settembre a Trento. C’è una continuità nella parabola umana e spirituale di questo indomabile – ancor giovane e nel cuore giovanissimo, un entusiasmo contagioso – gesuita che è quella di stare al fianco di popolazioni oppresse in vario modo, comunità legate a un sistema comunitario atavico, senza proprietà privata dove i beni sono a disposizione di chi ne ha bisogno. Padre Fabio vive e opera nei territori di quelle che erano state le “Missioni” gesuitiche a metà del 1700, luoghi liberi dalla soggezione schiavista dei colonizzatori spagnoli e portoghesi nell’ambito di una cosmogonia indigena che è stata evangelizzata con rispetto nel mentre gli stessi gesuiti si lasciavano “evangelizzare” dagli indios. E’ stata ripercorsa la storia di quella che è apparsa e appare tuttora come uno scontro di civiltà, rapporti tra le persone e relazioni diametralmente opposte e confliggenti.
Mentre li si fa passare come un tentativo di far rinsavire questi “selvaggi”, educarli alla civiltà occidentale, trovando un approdo sicuro per gente “pigra”, poco o per niente produttiva. E padre Fabio si chiede – non senza un velo di malinconia, ma con fiducia nella fantasia e nell’azione della “sua” gente – se anche questa volta, come tante volte lungo i secoli e i decenni scorsi, gli indios della foresta sapranno inventare qualcosa per salvaguardare se stessi e l’habitat che li circonda, unendo sapientemente resistenza e resilienza, la capacità, cioè, di opporsi a progetti insani e distruttivi e al contempo saper soffrire, sacrificarsi per un ideale di salvezza per sé e per gli altri. Vengono i brividi alla schiena sentire quella che è stata la lunga storia di oppressione e di liberazione di questi popoli nativi. In questa porzione di foresta amazzonica non si trovava – per la bramosia insaziabile dei conquistatori – né oro, né argento e allora ecco la nuova scoperta: il mercato degli schiavi. Mano d’opera a costo zero, bastava fossero sani e forti, gli altri venivano scartati (come facevano i nazisti con gli ebrei nei lager, la crudeltà e la fantasia malefica dell’uomo non conosce confini dei spazio e di tempo!). Fino che a un certo punto non c’erano più indios in quelle zone (come nel bellissimo film Mission in cui, nel finale, sopravvivevano alla carneficina dei conquistatori solamente una dozzina di ragazze e ragazzi, il germe di un possibile nuovo inizio!). E se per circa un secolo i gesuiti avevano accompagnato gli spagnoli e i portoghesi nella foresta per “civilizzare” i selvaggi suoi abitanti, ad un certo punto – rileva padre Fabio – alcuni gesuiti decidono di andarci da soli, prima due di loro, non senza titubanze e paure, poi altri tre. E’ da lì che sono nate le prime missioni gesuitiche che hanno protetto quelle zone, fatto da scudo al territorio indigeno, contribuendo a creare un sistema economico di autosussistenza, un forma di “governo” in cui erano gli indios a decidere della loro vita, seguitando a mantenere le tradizioni popolari e la religiosità propria, una spiritualità profonda in sintonia con la natura e il mistero della vita che nasce e in modo naturale finisce. Come le piante della foresta, come i fiori dei campi.
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