Entro il 2050, il 70% della popolazione mondiale vivrà in città: due miliardi occuperanno i cosiddetti insediamenti informali (baraccopoli)
Il 4 maggio 2016 atterro a Lima: seconda città desertica più grande al mondo! Ad accogliermi un nuovo inverno dall’aria umida e pesante, e una nebbiolina talmente bagnata dall’aver preso il nome di llovizna (pioggerella). La ragione del mio viaggio è dovuta al lavoro di ricerca sul campo su di un insediamento informale della periferia di Lima, componente fondamentale del progetto di dottorato che sto portando avanti a Glasgow (UK) presso la Urban Design Studies Unit nel dipartimento di Architettura della Strathclyde University, grazie al finanziamento della Fondazione Cassa Rurale di Trento ottenuto nel 2014.
Gli insediamenti informali, nel linguaggio comune baraccopoli, sono quegli ambienti con la più alta concentrazione di persone povere e le peggiori condizioni ambientali fisiche ed abitative. Perché studiarli? Le statistiche delle Nazioni Unite ci avvertono che entro il 2050, il 70% della popolazione mondiale vivrà in città. Dei 9 miliardi a livello globale, 7,9 andranno a popolare i cosiddetti PVS (Paesi in via di sviluppo). Di questi, due miliardi occuperanno le aree più inospitali della terra, i cosiddetti insediamenti informali.
E’ evidente come, nel caso dello studio di una baraccopoli, il lavoro di ricerca sul campo diventi indispensabile per poter reperire materiale altrimenti non disponibile tramite fonti ufficiali. Durante i quattro mesi di permanenza è infatti stato possibile raccogliere informazioni importanti sulla struttura interna di una baraccopoli: San Pedro de Ate (Lima est), tramite interviste ai residenti, rilievi fotografici e mappature degli elementi urbani.
La ricerca consiste, da un lato nell’analisi dell’evoluzione morfologica dell’insediamento (la morfologia è quello specifico campo degli studi urbani che studia la forma degli insediamenti umani e il loro processo di formazione e trasformazione nel tempo), dall’altro nello studio della sua struttura sociale e governativa. Il periodo di raccolta dati è stato facilitato dalla possibilità di soggiornare per alcuni giorni a settimana all’interno della baraccopoli, ospite di una parrocchia. La quale si è inoltre presa carico della mia sicurezza mettendo a disposizione una persona che mi scortava nei percorsi di ricognizione. San Pedro de Ate è infatti nota come zona rossa, essendo gestita da bande locali e narcotrafficanti.
L’origine degli insediamenti informali sviluppatisi sulle colline della periferia di Lima e l’espansione a macchia d’olio della città (fino al 1940 Lima aveva una popolazione di 25.000 abitanti, contro gli undici milioni attuali), si devono soprattutto al periodo di grave crisi economica in cui versava il Perù all’inizio degli anni quaranta, e alla successiva apertura di mercati ortofrutticoli concepiti per la distribuzione di merci a livello nazionale (ad esempio il mercado Mayorista). Inoltre, una serie di riforme attuate tra gli anni Cinquanta e Settanta, come ad esempio la Riforma agraria del ‘69, spinsero migliaia di agricoltori a migrare dalla sierra verso la capitale con la promessa di un terreno proprio da coltivare. Fu così che il 15 aprile 1947, una dozzina di campesinos, espropriati dalle precedenti aree di residenza e guidati dalla figura mistica di Poncho Negro, invasero le pendici della tenuta collinare El Agustino, reclamando il loro diritto alla terra.
Questo, se da un lato mise fine al regime feudale che regolava i rapporti tra campesinos e i grandi proprietari terrieri, dall’altro aprì le porte ad un’economia di tipo liberale, che ebbe il suo culmine negli anni del Fujimorismo. Periodo in cui, per mezzo di politiche populiste ed autoritarie, si trasferì la gestione della maggior parte delle aziende di stato nelle mani di imprese private; quali la rete di trasporto pubblico, il servizio di telefonia e di elettricità.
La conseguenza evidente del processo di accentramento di istituzioni, mercati e posti di lavoro, e della totale apertura ad una economia di mercato, è una capitale di undici milioni di abitanti (un terzo della popolazione nazionale), priva di una rete di trasporto pubblico metropolitano, che al contrario è gestito da centinaia di piccole associazioni in concorrenza tra loro; un alto tasso di criminalità, con alcune aree costantemente in stato di emergenza; e la totale assenza di piani urbanistici a lungo termine, che interessino anche le zone più degradate.
Queste sono alcune delle problematiche di una città capitale di un paese che ha solo recentemente iniziato il suo processo di democratizzazione (1992), dopo esser stato dominato da regimi militari, intervallati da violente insurrezioni della società civile guidate da movimenti estremisti come Sendero Luminoso e Tupac Amaru.
Dopo quattro mesi trascorsi tra il frastuono della metropoli, e la costante sensazione di insicurezza tipica degli insediamenti informali, cominciavo a sentire nostalgia di Europa, e principalmente di libertà.
Tutt’oggi a Lima si respira un’atmosfera malinconica, grigia, a volte rassegnata, nei confronti di un passato che si fatica a dimenticare e che ha seminato sconforto e paura. Rimango con una domanda che mi perseguita dal giorno in cui sono arrivata: “Perché migliaia di persone continuano a trasferirsi a Lima in cerca di lavoro e migliori condizioni di vita?”.
Maddalena Iovene
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