La Presidenza della Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb) ha preso posizione in merito al massacro compiuto ai primi di gennaio nel complesso carcerario di Manaus, metropoli brasiliana nel cuore della foresta, capitale dello stato di Amazonas. Un regolamento di conti portato avanti da due cartelli rivali del narcotraffico con ferocia inaudita, attraverso sevizie, torture, decapitazioni. Quindici ore di vera e propria guerra dentro la struttura carceraria “Anisio Jobim”, nella periferia nord della città, che ha provocato, secondo i dati forniti dalle autorità, 60 vittime.
Nel testo i vescovi esprimono vicinanza e identità di vedute con dom Sergio Castriani, arcivescovo di Manaus, e chiedono alle autorità competenti un’
Sovraffollamento, privatizzazioni, mancanza di prospettive di riabilitazione e reinserimento sono anche i grandi mali che emergono dalla testimonianza che abbiamo ricevuto da Manaus e che per tutelare chi ce l'ha fornita lasciamo anonima. Ne proponiamo di seguito una sintesi.
La prima considerazione che fa il nostro testimone è che l'amministrazione della giustizia in Brasile è classista. “I ricchi non finiscono in catene. Non c'è alcun controllo di polizia sulle droghe vendute nei quartieri 'bene' nella parte orientale della città, o nelle feste universitari dove pure è noto che la droga circola. E comunque i ricchi se finiscono in prigione escono su cauzione e quando hanno problemi con la giustizia dispongono di buoni avvocati”.
Anche la collocazione del carcere, lontano dal centro città, rientra in una precisa strategia: “I lebbrosi di oggi, i malati impuri da tenere a distanza di cui parla il libro del Levitico sono i detenuti poveri”. Tre carceri – Manaus, Manacapuru, Parintins – costruite fuori dal mondo. “Come sempre”. Mancano le risorse per contrastare il crimine, ma non per costruire luoghi di costrizione. Possibilmente lontano. “Vedo solo vantaggi per i costruttori: riducono i costi di gestione e massimizzano i profitti, perché la struttura richiederà meno personale per i controlli”. Ma ciò comporta invece svantaggi evidenti per le famiglie dei detenuti (“avranno più difficoltà a visitare i congiunti”), per gli agenti di custodia (“arrivano al lavoro dopo un viaggio faticoso, stanchi e stressati”), per l’amministrazione della giustizia (“andare in tribunale richiederà auto, personale, benzina, e la giustizia non può che essere più lenta”), per la cura della salute dei detenuti, per i volontari che rendono più umano con la loro presenza il periodo dietro le sbarre, per chi in regime di semilibertà potrebbe lavorare fuori del carcere (“se è lontano dalla città, è strutturalmente impossibile”.
La conclusione è amara: “In questa battaglia nel carcere di Manaus le vittime sono la bassa manovalanza del crimine o al più qualcuno che muoveva i primi passi nella scalata del potere criminale che controlla il traffico di droga. Ma erano pur sempre persone, esseri umani con madri, mogli, figli”. Manovalanza che ora non sarà difficile rimpiazzare. “Non sarà difficile trovare altri giovani pronti a sostituire chi è morto: giovani delle periferie, che non hanno un futuro”.
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