In Afghanistan, restando umani

La guerra come cornice che divora vite, l'umanità sofferente al centro con il dolore sul volto, il coraggio e la speranza nelle mani

Bambini stesi su un lettino all'ospedale o in sedia a rotelle; a scuola, orfani. Medici in corsia che visitano i pazienti, fanno consulti e osservano radiografie. Allieve ostetriche afgane. Uno sminatore afgano al lavoro, pastori in viaggio. Kabul vista dall'alto, l'ospedale, il carcere. La guerra come cornice che divora vite, l'umanità sofferente al centro con il dolore dipinto sul volto, il coraggio e la speranza nelle mani.

"Non è che a me le persone interessano per fotografarle, mi interessano perché esistono", afferma Mario Dondero, classe 1928, di origini genovesi, una tra le più importanti figure del fotogiornalismo contemporaneo italiano e non solo. I 45 scatti che compongono la mostra fotografica, inaugurata venerdì 4 settembre alle Gallerie di Piedicastello (vedi box), sono impastati di sentimenti e contraddizioni impossibili da capire se non li sperimenti. Documentano il lavoro di Emergency "In Afghanistan", narrando attraverso immagini intense e provocanti la tragedia di un popolo martoriato da una guerra quarantennale e l'umanità e la dedizione degli operatori dell'organizzazione indipendente e neutrale fondata da Gino Strada che dal 1994 presta cure gratuite a vittime di guerra e povertà, promuovendo il rispetto dei diritti umani.

Da molti anni Mario Dondero collabora con Emergency e nel suo reportage, realizzato nel 2005 a 77 anni, ora in esposizione a Trento con la collaborazione della Fondazione Museo storico del Trentino, ha tradotto la storia del popolo afgano affidandosi al bianco e nero.

Colori che richiamano i poli opposti della pace e della guerra, la cura dell'uomo che si contrappone alla violenza dei conflitti armati e alle loro nefaste conseguenze, come è emerso dall'accorata testimonianza di Paola Carmignola, infermiera trevigiana con esperienza ultraventennale, appena rientrata dalla sua quarta missione con Emergency e coordinatrice Regione Veneto dei volontari di Emergency.

Folgorata dalla lettura del libro di Gino Strada"Pappagalli verdi" (Feltrinelli, 1999), dopo aver completato il master in anestesia e terapia intensiva nel 2006 Paola Carmignola dà una svolta alla sua vita e parte per Anabah, villaggio della valle del Panshir, regione protetta dalle montagne e densamente minata, situata nel nord dell'Afghanistan. Lì nel 1999 Emergency ha convertito un'ex caserma in Centro chirurgico per feriti di guerra e mine, a cui nel 2003 si sono aggiunti un ambulatorio pediatrico e un centro maternità.

"L'impatto è stato sconvolgente, siamo assuefatti alla violenza della guerra che vediamo in televisione, ma quando i drammi si consumano davanti ai tuoi occhi e ad essi associ odori, colori e rumori, sperimenti sensazioni che non ti togli più di dosso", ha raccontato Carmignola mentre alle sue spalle scorrevano immagini di vita quotidiana. "C'erano 900 mila profughi e milioni di mine antiuomo che ancora oggi fanno 7 vittime al giorno; un centro maternità in quel luogo sembrava una follia, ora è gestito da donne che formiamo noi, dal 2003 a oggi sono nati oltre 30 mila bambini, e abbiamo aperto anche un reparto dedicato alla terapia intensiva prenatale".

Nel 2007 è a Kabul, dove nel 2001 un ex asilo bombardato è diventato Centro chirurgico per vittime di guerra, dotato di 109 posti letto. "Lì sono stata responsabile del reparto di rianimazione e terapia sub-intensiva, ho accettato senza pensarci, è la mia vocazione. Poi nel 2008 sono ripartita per andare a Goderich, in Sierra Leone, rimanendo colpita nel vedere gli effetti di 500 anni di colonialismo". Dopo una pausa di riflessione, nel novembre scorso l'infermiera è tornata in Afghanistan rimanendovi fino a giugno, "la missione più bella, vissuta con una maturità e una consapevolezza diverse".

Rispetto ad una miriade di cliniche per le quali la sanità è solo un business e centri a pagamento che organizzano "tour sanitari" in Pakistan e in India, le cure prestate gratuitamente da Emergency sono apprezzate dal popolo afgano: "Il modello di sanità offerto è preso a esempio come modello che funziona e garantisce elevata qualità nella cura del paziente, inoltre l'ospedale offre lavoro a più di 1000 persone".

Partire e affrontare situazioni a cui non si è preparati costringe a confrontarsi con realtà indescrivibili, ma rientrare in Italia dopo esperienze simili è ancora più difficile. "Vivere in un paese disastrato, con 150 ricoveri al mese ad Anabah per feriti da mine e 300 a Kabul, ti cambia la vita, ma fai parte di un team che lavora con lo stesso obiettivo: mettere ogni uomo al centro della cura, senza distinzioni, e il calore umano e l'affetto trovato lì non l'ho mai provato da nessun'altra parte". Riscoprire l'umanità in un Paese disumano è ancora possibile: "Dobbiamo spogliarci della presunzione di porci come cultura superiore che vuole insegnare loro a vivere, loro ci insegnano qualcosa di più importante: pur essendo donna e non mussulmana, non mi hanno mai fatto sentire straniera, ma accolta in una grande famiglia".

La mostra è un invito non solo a riflettere su quello che succede in Afghanistan, ma a lasciarsi provocare da immagini che interpellano la responsabilità di ognuno nel recuperare quel senso di comunità che nella società occidentale si sta sempre più sgretolando.

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