La guerra di Marta

Non c’è storia che non meriti di essere raccontata. Dare un volto e una voce a chi troppo spesso si conosce solo come un numero scomodo per l’Italia e l’Europa, aiuta le persone a capire e a sviluppare una sensibilità che purtroppo, finora, non c’è stata. Sono parole di Marta Matassoni, ventiquattrenne roveretana, che dal Libano raccoglie storie di vita in bilico tra il quotidiano e l’ansia del terrore vissuto da tanti rifugiati, che ogni giorno scappano dalla Siria infiammata dall’odio. Dal 12 aprile, poco dopo aver concluso il periodo di formazione iniziato con l’Operazione Colomba dell’associazione nonviolenta Papa Giovanni XXIII, la ragazza ha vissuto per quattro mesi in un campo profughi nel nord del Libano.

A Tel Abbas nella regione di Akkar, Marta è rimasta fino al 12 luglio scorso cercando di aiutare quanti sono stati costretti a fuggire da quella che, ostinatamente, continuano a chiamare patria. “Non c’è uno di loro che non sogni di ritornare in Siria. Per i siriani è impensabile fermarsi in questi campi profughi più del necessario e il prossimo anno si vedono già a casa. Una casa che, però, molto probabilmente non esiste più”, spiega la volontaria.

Con la voglia di sentirsi utile e di non arrendersi a quell’ingiustizia che si percepisce ad ogni età, ma che a vent’anni non si accetta nemmeno per sogno, un giorno di aprile Marta è volata in Libano. Ma presto, pure lei, per evitare di essere sopraffatta dal dolore, ha dovuto iniziare a costruirsi una sorta di barriera difensiva per non pensare ai visi dei bambini che non rivedrà più. Come Said, nome di fantasia, che ha quattro anni, ma che sembra più piccolo, e che non è mai stato da un dottore e mai forse verrà visitato. “Guardando il padre con il bimbo in braccio – racconta Marta – capisci cosa vuol dire non avere un futuro e rassegnarsi ad una vita che non è esistenza”.

“Vivevamo 24 ore su 24 con queste famiglie e a volte si rischiava di perdere di vista quale fosse la situazione. Ci sei talmente dentro e ogni tanto devi fermarti e ritornare a guardare ciò che sta accadendo dall’esterno”, continua.

Ogni mattina Marta si alzava, andava a trovare le famiglie del campo, ascoltava i loro problemi, cercava di soddisfare le loro prime necessità e faceva da tramite tra loro, l'Unhcr e le organizzazioni non governative. “Il problema principale per tanti, oltre al fatto che il governo libanese non riconosce loro lo status di profugo, è l’assistenza sanitaria, che costa moltissimo. E il fatto di essere siriani non aiuta”, racconta, ritornando con la mente a quando, appena arrivata in Libano, si trovò di fronte un uomo che da settimane cercava un medico per sua moglie, da operare d’urgenza. “Appena siamo arrivate noi, in cinque minuti la donna era già sotto i ferri”, ricorda Marta.

Ma a Tel Abbas sotto le tende, dove la vita è scandita da giorni bui e meno bui, da tè, caffè e sigarette, è successo anche l’impensabile. Quel gesto che non ti aspetti e che lascia un segno, e forse anche un po’ di speranza. Come quando per la prima volta, ci racconta, arrivarono al campo alcuni libanesi – “cosa che non capitava mai perché chi vive lì ha paura e si tiene alla larga” – e organizzarono una sorta di training psicologico che consisteva nel guardarsi negli occhi per trenta secondi. “Così ci siamo messi a coppie. Prima continuavamo a ridere, poi ci siamo messi tutti a piangere. Io ancora non sapevo una parola di arabo, ma da quel momento in poi è scattato qualcosa”. Da quell'istante, così carico di umanità, Marta ha iniziato a costruire i primi rapporti con i profughi. “E fino all'ultimo giorno l’uomo che gestisce il campo, uno tra i più rigidi, che non si lasciava mai andare, mi chiedeva di organizzare un’altra serata simile a quella. Anche lui aveva pianto. E in quel momento è stato come superare un ostacolo, scoprendoci più simili che mai”.

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