La ricercatrice araba-palestinese Safa Dhaher e gli effetti del Muro sulla società: “Gli adulti si adattano fino ad ignorarne la presenza. Nei giovani, invece, cresce il malcontento e la frustrazione”
A giugno di quest'anno ricorrono i 50 anni dell’occupazione militare israeliana dei territori palestinesi, Cisgiordania e Gerusalemme Est, in seguito alla Guerra dei sei giorni.
Da allora e dalla firma dell'accordo di Oslo (1993), nonostante le numerose risoluzioni di condanna del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la presenza dei coloni è salita a 570 mila, fino a rappresentare il 22 per cento della popolazione in Cisgiordania. L'occupazione si traduce in: confisca di terra, demolizione di case, arresti arbitrari, anche di minori, controlli ai checkpoint, ostacolo alla libertà di movimento causata dal Muro, divieti di accesso a servizi e risorse essenziali come l'acqua e l'elettricità. Da qui nasce l'Intifada, la rivolta dei palestinesi contro Israele, innescando una escalation di violenze che in questi anni hanno impedito ogni tentativo di trovare accordi di pace.
Oggi il conflitto israelo-palestinese rimane ancora irrisolto, diventando marginale nello scacchiere mediorientale insanguinato dalle guerre, su tutte quella in Siria, e dall’espansione violenta dell’Isis. A riaccendere i riflettori l’ennesima Risoluzione dell’Onu del 23 dicembre scorso, con la storica astensione degli Stati Uniti, che ribadisce l’illegalità degli insediamenti sul territorio palestinese, e il drammatico attentato dell’8 gennaio di Gerusalemme quando un camion piombato sulla folla ha ucciso quattro soldati israeliani. “Ormai le risoluzioni Onu, mai rispettate, sono poco credibili e contrastano con le condizioni di vita quotidiane della gente che non ha più fiducia in un possibile cambiamento”. A parlare è Safa Dhaher, docente esperta sulla situazione in Cisgiordania e Gerusalemme Est, chiamata a portare la sua testimonianza nell’incontro promosso, giovedì 19 gennaio, dall’Associazione “Pace per Gerusalemme” e dal Forum Trentino per la pace e i diritti umani. Safa Dhaher è nata e vive a Gerusalemme Est, ha conseguito il dottorato in “Sviluppo locale e dinamiche globali” all’Università di Trento con una ricerca sull’effetto del Muro. Se nello scenario geopolitico internazionale le numerose risoluzioni così come la recente apertura dell’ambasciata palestinese in Vaticano hanno una valenza significativa “tuttavia a livello locale – spiega – rimane il vulnus della condizione sociale e pratica della quotidianità che genera diffidenza e scetticismo, specie di fronte ad una classe politica palestinese inadeguata, corrotta e litigiosa che deriva dalle intenzioni di tenere aperto lo scontro interno tra i partiti di al-Fatah e Hamas e, quindi, fare il gioco di Israele”. Anche l’instabilità del vicino Oriente e la guerra in Siria “sono funzionali ad altri interessi e giovano a rafforzare l’idea di Israele che si deve difendere – precisa – mentre i palestinesi rivivono la guerra in Siria come la loro Nakba, la catastrofe della loro espulsione, e avvertono il dramma dei profughi siriani con profondo dolore e scoraggiamento”. Dentro questa cappa di angoscia e depressione gli anelli più deboli del “capitale sociale”, oggetto della sua ricerca, sono le donne – vittime di violenze e discriminazioni tra occupazione israeliana e una cultura araba patriarcale dominante – e i giovani senza lavoro e prospettive. “Mi preoccupa molto il calo di livello della cultura palestinese rispetto a quella alta del passato – racconta riportando la sua esperienza nel settore – quando il popolo palestinese espropriato della terra aveva puntato sulla formazione qualificata per favorire il futuro dei figli. Durante la diaspora sono rimasti all’estero e hanno potuto beneficiare di scambi con la cultura europea. Al contrario la gente che è rimasta si è progressivamente adattata e rassegnata ad un contesto depauperato e peggiorato con il Muro che ha diviso famiglie e incattivito gli animi. Per cui le nuove generazioni mancano di memoria storica e conoscono solo contesti di marginalità, di degrado, di assenza di lavoro e di prospettiva”. La società palestinese si è quindi ridotta ai puri rapporti del singolo nucleo familiare che si auto difende e alimenta rabbia e l’incapacità di immaginare un mondo diverso. “L’impossibilità di muoversi e di scambi culturali – aggiunge – ha consolidato il rifiuto di incontro e di dialogo con gli ebrei. Per la fascia adulta la necessità di adattarsi per far sopravvivere i figli porta a non vedere il Muro per ridurre al minimo il fastidio. Nei giovani invece cresce il malcontento e la frustrazione che sfocia in ribellismo e rivolte spontanee prive di orientamento politico”. Un richiamo anche alla responsabilità della parte araba per non aver colto la possibilità di credere in una mediazione ha facilitato il compito espansionistico di Israele. “Nel nome del fatto che era una terra araba palestinese – sottolinea – e del fatto che gli arabi non erano responsabili del dramma patito dagli ebrei di cui l’Europa porta la responsabilità principale”.
Si guarda guarda con fiducia al recente accordo interpalestinese, fra Al Fatah e Hamas, che punta a formare un governo di unità nazionale per andare oltre gli scontri fratricidi peraltro funzionali al dominio di Israele. “La riconciliazione – osserva con amarezza – è stata annunciata più volte in passato senza alcun effetto concreto”. Mentre tramonta la soluzione di “due Stati per due popoli”, avanza l’idea di uno Stato binazionale, un Parlamento unitario così come raccontato dall’attivista ebreo israeliano Jeff Halper, nel convegno a Trento “Scenari di Guerra, scenari di pace”, che potrebbe costituire una palestra per l’esercizio della democrazia, verso un futuro di convivenza e del rispetto pieno dei diritti degli uni e degli altri.
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