“Basta armi per la guerra in Yemen”

Al convegno “Economie di pace. Tra scenari globali e scelte quotidiane” promosso dal Forum Trentino per la pace Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete Italiana per il Disarmo ha analizzato la situazione degli investimenti in armamenti a livello internazionale, prestando particolare attenzione al contesto europeo. “E’ scioccante – ha osservato – che la spesa comunitaria in armamenti venga considerata investimento che merita un trattamento speciale e al contrario l’educazione, la salute, la spesa sociale, la difesa dell’ambiente solo dei pesi”.

“Basta armi per la guerra in Yemen”, lo chiede un cartello di organizzazioni della società civile italiana, che mercoledì 21 giugno alla Camera dei Deputati ha presentato le sue proposte. Vignarca, come è coinvolta l’Italia in questo sanguinoso conflitto, che ha provocato migliaia di vittime e ora anche un’epidemia di colera?

L'Italia, è confermato, partecipa a questo conflitto perché le bombe prodotte in Sardegna vengono utilizzate dalla coalizione a guida saudita per bombardare lo Yemen. Lo denunciamo da due anni: l’Italia è corresponsabile in questo conflitto, che non ha alcuna legittimazione dal punto di vista del diritto internazionale e che ha generato oltre seimila morti tra i civili. Dovrebbe invece dare un contributo allo stop della guerra smettendo di fornire le armi a coloro che sono coinvolti”.

Sulla questione si è espresso il Parlamento europeo. In che termini?

Il Parlamento europeo aveva approvato una risoluzione urgente nel febbraio dello scorso anno e si è nuovamente espresso qualche giorno fa non limitandosi a un appello generale a tutte le parti in causa per giungere alla cessazione del conflitto, ma chiedendo esplicitamente un embargo europeo da parte dei Paesi dell'Unione, in particolare verso l'Arabia Saudita (l'altra parte in conflitto, cioè i ribelli Houti, non ha rapporti di forniture di armi con i nostri paesi). Il Parlamento europeo chiede a Federica Moverini, Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, di farsi promotrice di questa iniziativa, riconoscendo che una delle strade per risolvere la situazione è quella di bloccare le armi.

E’ pensabile che anche il Parlamento italiano arrivi a un pronunciamento analogo?

Pensabile non lo so, sperabile sì. Alla Camera abbiamo presentato una proposta di mozione modellata su quella del Parlamento europeo. Chiediamo ai parlamentari un moto di coscienza, una presa di posizione chiare perché questo conflitto colpisce soprattutto la popolazione, provoca vittime tra i civili direttamente e indirettamente, perché mina le infrastrutture di base (servizi, sanità, ecc.).

Sull’export di armi verso l’Arabia Saudita e su possibili eventuali violazioni della legge 185 del 1990 indaga la magistratura. A che punto sono le inchieste?

Abbiamo presentato esposti in tre Procure: Brescia, dove ha sede legale (a Ghedi) l’azienda che produce gli ordigni; Cagliari, dove c’è la sede produttiva (a Domusnovas); e Roma. La Procura che si è mossa per prima è quella di Brescia, la cui indagine ha confermato tutti i dati che avevamo esposto; ha chiuso l’inchiesta per quanto riguarda eventuali responsabilità dell’azienda perché, come noi pensavamo, ha tutte le autorizzazioni in mano, ma ha trasmesso il fascicolo a Roma.

A Roma perché?

L’indagine non è più a carico dell’azienda che ha ricevuto le autorizzazioni, ma di chi ha rilasciato le autorizzazioni. La legge 185 del 1990 vieta l’esportazione di materiale bellico a Paesi in conflitto armato, a meno che non ci siano le deliberazioni del Governo con il voto del Parlamento: che in questo caso non c’è.

Per la prima volta, all’ultima assemblea degli azionisti di Rheinmetall, uno dei principali produttori tedeschi di armamenti, fortemente indiziato di fornire, attraverso la consociata sarda RWM Italia, bombe all’Arabia Saudita, c’era anche la Fondazione Finanza Etica. Come intercettano gli scenari globali che abbiamo visto le nostre scelte quotidiane?

La Fondazione Finanza Etica fa azioni di azionariato critico per conto di movimenti e associazioni. In questo caso è intervenuta per conto della Rete italiana per il disarmo, grazie alla delega dell’ong tedesca Urgewald. Il mercato delle armi è sempre di più internazionale e grazie alla Fondazione abbiamo potuto porre questioni e sollecitare così anche una reazione dell’opinione pubblica tedesca.

Cosa avete concluso?

Che Rheinmetall ha deciso di produrre queste bombe in Italia perché il governo tedesco forse non avrebbe autorizzato l’esportazione, e allora è venuta a produrle in Italia.

In quell’assemblea a Berlino avete anche avuto conferma dell’intenzione dell’azienda di ampliare la struttura produttiva in Sardegna.

Sì, in risposta a una delle nostre domande. Ciò conferma l’importanza di questi interventi di azionariato critico, sia per sensibilizzare l’opinione pubblica sia per raccogliere informazioni che poi tornano utili per sostenere le nostre campagne di pressione e per esercitare con coerenza e maggiore consapevolezza le nostre scelte di finanza, di acquisto, di comportamento nella società.

(hanno collaborato Eugenia Rigotti e Sofia Folgheraiter)

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