Le elezioni sarde potrebbero essere un’utile occasione per i partiti per avvicinarsi alla realtà profonda di questo momento di passaggio che stiamo vivendo. L’esaltazione dei vincitori e dei loro supporter così come la falsa modestia dei perdenti (non si usa più negare l’evidenza di un risultato negativo) servono a fare un po’ di spettacolo nei talk, ma non si va più in là.
Il primo dato su cui riflettere è che ha votato il 52% degli aventi diritto. Significa che metà dell’elettorato non si aspetta nulla dai risultati elettorali ed è indifferente a chi vince. Non un messaggio tranquillizzante in una regione che di problemi di povertà ed emarginazione, così come di sviluppo diseguale ne ha molti e che essendo una regione a statuto speciale qualche strumento per affrontare questi problemi lo ha a disposizione.
Poi c’è la questione di come i partiti scelgono le candidature di punta. Tutti criticano giustamente l’impuntatura di Giorgia Meloni nel volere per quel ruolo un suo uomo non tenendo conto che non era esattamente quello che in altri tempi si sarebbe definito un cavallo di razza. Se era comprensibile che non volesse cedere alle pretese di Salvini che voleva confermare l’uscente Solinas che aveva governato male, lo è meno insistere per un suo uomo che già come sindaco di Cagliari registrava una più che scadente performance (come poi i voti in quella città hanno confermato). Se la destra-centro vuole rimanere competitiva non può pensare che per affermarsi basti l’abilità dell’attuale premier e la sua visibilità dovuta al ruolo.
Diversa la situazione nel cosiddetto “campo largo” dove potrebbe sembrare che invece si sia scelto il candidato giusto, perché Todde non solo ha vinto, ma ha anche più voti disgiunti di quelli delle sue liste. In questo caso la domanda è per quale ragione il PD abbia ceduto al diktat di Conte di non fare le primarie. Vista la capacità di attrarre consensi da parte di Alessandra Todde, lei avrebbe vinto delle primarie di coalizione e non ci sarebbe stata la scissione di Soru, che comunque ha raccolto anche un po’ più di voti di M5S. La mania di risolvere tutto nei caminetti fra i dirigenti di partito è imperante e lo si vede in quel che sta succedendo nelle altre regioni in cui si andrà al voto (Basilicata e Umbria; in Abruzzo la partita è già chiusa): nel PD il mito salvifico delle primarie è tranquillamente finito in fondo al cassetto, per non dire al cestino (così come fra i Cinque Stelle le selezioni via internet).
Altro dato che andrebbe valutato a fondo è che il presunto bipolarismo fra destra e sinistra è solo una facciata. In realtà nell’un campo come nell’altro parliamo di blocchi che raccolgono ciascuno una decina di sigle che poi condizionano i capofila: i due maggiori partiti, il PD e FdI, non riescono a raggiungere ciascuno il 14% dei consensi, non proprio percentuali da “forze-guida”. Se compariamo questi risultati con le percentuali raccolte nell’isola alle elezioni nazionali dell’autunno 2022 dove i partitini non avevano avuto spazio vediamo subito quanti voti questi hanno sottratto alle teste di serie: e sono debiti che poi in politica, specie nella politica locale, si pagano eccome.
Con risultati che grosso modo segnalano però la spartizione a metà dell’elettorato fra destra e sinistra, per cui chi vince ci riesce per qualche migliaio di voti di differenza. è arduo parlare di cambiamento del vento. Sarebbe più corretto per ora limitarsi a constatare che il consenso è mobile e che a determinare il risultato sono quote marginali di elettori che si spostano da un campo all’altro e/o che si rifugiano nell’astensione. I partiti, tutti, dovrebbero preoccuparsi molto di questa instabilità che dovrebbe spingerli a diventare il più inclusivi possibile. Invece si fanno conquistare dal mito della radicalizzazione, cioè da una dinamica che è quanto mai foriera di instabilità, perché porta a puntare su proposte populiste che diventano facilmente intercambiabili nell’attrazione esercitata dai partiti.
Come abbiamo più volte ricordato, i partiti pensano di risolvere tutto sulla base delle percentuali che ciascuno raccatterà alle prossime elezioni europee, ma si tratta di voti di fatto “simbolici”, perché gli elettori non ci vedono niente di vincolante e dunque per lo più scelgono di pancia, e perché rincorrendo quei consensi mettono a rischio la distribuzione del potere in regioni e comuni (votano in 3700 a giugno!), cioè in quelle sedi dove maggiormente si può fare politica concreta e ancorare così il consenso della gente.
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