Pentecoste, 50 giorni. 50 giorni dopo Pasqua, il rischio è dimenticare l'orizzonte di liberazione intravisto tra la notte e l'alba di resurrezione, l'emozione provata nell'incontro personale con il Risorto. 50 giorni dopo, la ragione insinua il dubbio e mette in discussione l'esperienza: “era davvero lui, o hai voluto crederlo?”. Il vuoto dell'assenza prevale sulla presenza, giorno per giorno sottrae senso e, con il senso, la direzione dell'andare. Per questo è importante tenere il conto dei giorni che si srotolano da Pasqua, non per fissare delle celebrazioni ma per ricordare da dove veniamo e dove andiamo, nella vita di ogni giorno; per avere l'orientamento giusto che non è quello piegato dal dolore su una tomba, ma girato verso la vita.
Anche il cinema, linguaggio simbolico, ci aiuta in questo; più della parola astratta.
Per natura e per ragione, siamo portati a distinguere e a separare. Ciò che riguarda noi, oggi – e ciascuno di noi separatamente dall'altro – e ciò che ha riguardato gli apostoli, 2000 anni fa. Come se l'irruzione dello Spirito che ha riempito quegli uomini e li ha buttati fuori di casa ad annunciare al mondo il “mondo nuovo”, sia data una volta per tutte, e non riguardi il nostro tempo. Eppure chi più di noi – uomini dell'Occidente che ancora si dice cristiano – è rinchiuso in sé e quasi rassegnato alla morte (non tanto e solo quella fisica, ma quella del senso per cui vivere e combattere, come singoli e come comunità)? Chi più di noi è afasico di fronte a ciò che sta diventando il mondo di benessere e sicurezza che pensavamo di aver creato? Attoniti, dolenti, impotenti. Forse incapaci di parlare perché incapaci di sentire e di vedere.
Sordo-muti-ciechi, come la protagonista del film Marie Heurtin proiettato al teatro di Povo, sabato scorso, nell'ambito della rassegna Risvegli – laboratori d'ascolto con il cinema.
Il cinema racconta storie particolari – questa è accaduta realmente nella Francia a cavallo tra Otto e Novecento, nell'Istituto per sordomuti retto dalle Figlie della Sapienza – ma dentro il particolare che appartiene ad un determinato periodo e a determinate persone e luoghi, è presente qualcosa che supera il limite e parla anche di noi, a noi.
Noi che, a cavallo del Terzo Millennio, nell'aspirazione alla massima libertà individuale, ci siamo sciolti dalla relazione con gli altri e dalla legge, e siamo regrediti ad una singolare forma di inselvatichimento post-tecnologico che ci ha ottuso l'anima. E come Marie, abbiamo bisogno di qualcuno che ci raggiunga all'interno delle nostre reclusioni e ci aiuti ad uscirne. Come Marie, anche noi resistiamo violentemente alla coercizione di pettini, scarpe e abiti, perché sentiamo come violenza qualsiasi intervento educativo esterno teso a con-formarci, nonostante l'utopia pedagogica dello “stato di natura” che basterebbe al bambino per crescere nel migliore dei modi, abbia mostrato da un pezzo la propria insufficienza ed abbia lasciato sul terreno una società di Peter Pan invecchiati tristemente.
Per Marie la scoperta del legame tra la realtà concreta e il segno linguistico che le dà un nome e la rende comunicabile, ha rappresentato il risveglio alla coscienza della vita, la possibilità di procedere nella conoscenza dal concreto all'astratto e dal visibile all'invisibile, dall'uomo fino a Dio. E questo, dentro il legame tra il corpo e lo spirito, il qui e l'altrove, la gioia e il dolore, in un tutto inseparabile.
Noi, invece, udenti e vedenti, diamo per scontato il legame di senso, lo sottovalutiamo ed esponiamo la parola allo svuotamento della sua forza. La parola di Dio è creatrice perché in essa segno e realtà coincidono. Opera efficacemente perché non divisa, unisce. E non cala sul mondo separatamente, ma si incarna. Se trova donne come suor Marguerite che l'accolgono con umiltà e amore tenace, libera e riapre alla vita. La sua legge è relazione d'amore, incarnato.
Il prossimo appuntamento a Povo è con il film di Wim Wenders, Ritorno alla vita. Domenica 22 maggio alle 17.00.
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