11 febbraio 2024 – Domenica VI Tempo Ordinario B
Lv 13,1-2.45-46; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45
«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Mc 1,40
Certe malattie, fin dall’antichità, vengono percepite come una specie di castigo o di maledizione divina, vuoi per la loro gravità irrimediabile, vuoi perché deformano la persona, vuoi per le circostanze nelle quali possono essere contratte. Certe malattie, soprattutto a causa di ignoranza e pregiudizi, portano con sé un’esclusione quasi totale dalla società, dalla comunità nella quale si è nati, cresciuti, vissuti. Per tutta l’antichità la malattia delle malattie è la lebbra. Quando uno si scopre piagato viene immediatamente escluso dalla comunità civile e religiosa, costretto a vivere ai margini: di questo ci parla la prima lettura tratta dal libro del Levitico. Sopravvive la speranza di un miracolo, ma l’unica certezza è quella di una morte terribile per una progressiva decomposizione mentre si è ancora in vita. Quasi automaticamente, la gravità fisica della malattia viene colta come il sintomo di quella malattia interiore che è il peccato, viene vista come la manifestazione esterna di chissà quali colpe nascoste ed inconfessate.
È un pregiudizio col quale deve fare i conti Gesù Cristo stesso. Il Vangelo è buona notizia, è lieto annunzio per ogni uomo e per ogni donna sprofondati nella miseria si tratti di quella fisica, come pure di quella morale o religiosa. Gesù Cristo infrange l’emarginazione sociale e religiosa di tutte le persone “catalogate” come impure (lebbrosi, pubblicani, prostitute, stranieri, pagani, ammalati, morti, ecc.). Se, fino a Gesù Cristo, il contatto con un lebbroso rendeva impuri, con Gesù Cristo avviene un capovolgimento: il contatto con lui trasforma, purifica, rinnova. La malattia fisica è vinta, il peccato è perdonato, la dignità della persona ricuperata e rinnovata. Gesù non è imprigionato nel pregiudizio igienico-religioso che distingue in puro ed impuro. Di fronte alle nostre difficoltà e sofferenze, di fronte alla preghiera sincera e fiduciosa del lebbroso Gesù si muove a compassione, stende la mano, tocca, pronunzia una parola che sa guarire dentro e fuori: «Lo voglio, sii purificato, sii sanato dalla lebbra interiore o esteriore che ti sta corrompendo!».
Ancor oggi esistono malattie dolorose più perché creano il vuoto attorno a chi le contrae, che per le sofferenze fisiche che comportano. Ancora oggi esistono persone condannate all’emarginazione dai nostri pregiudizi. A noi cristiani spetta il compito di accogliere l’invito di Paolo ai Corinti: «Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo». In questo caso potremo fare anche noi l’esperienza trasformante del giovane Francesco d’Assisi: “Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo. E in seguito, stetti un poco e uscii dal secolo” (Testamento,1-3: FF 110).
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