Spesso è la cronaca a portarci in casa parole nuove, professioni che, soprattutto per le persone che non navigano in rete, non sono solo misteriose, ma rappresentano pure un mondo difficile da definire. L’anno scorso, dopo un tragico incidente della strada, abbiamo scoperto cosa sono gli “youtuber”, giovani che vivono la giornata con una telecamera sempre accesa per documentare su YouTube, per l’appunto, tutto ciò che fanno: le cose più banali (ma presentate in modo che le banalità si trasformino in straordinarietà meritevoli di essere seguite), ma soprattutto quei comportamenti “sopra le righe” che sanno suscitare interesse ed ammirazione.
Le cronache delle ultime settimane hanno portato in auge un altro termine, un’altra professione: quella degli influencer. Tutti ormai conoscono la vicenda di Chiara Ferragni, una giovane donna di 36 anni che in pochi anni è riuscita a trasformare se stessa e la propria quotidianità in una vera e propria azienda: la casa, i figli, il marito, i gusti in materia di vestiti, di gioielli, di prodotti alimentari, il taglio dei capelli e il modo di camminare nel parco. Tutto, per Chiara Ferragni, è diventato profitto; tutto è diventato occasione per aumentare il proprio conto in banca grazie a 30 milioni di follower (solo di Instagram). Una imprenditrice di successo e senza tanti scrupoli, stando almeno alle ipotesi di reato avanzate dalla magistratura per la brutta storia dei panettoni. Una cosa va comunque riconosciuta a Chiara Ferragni, quella di saper fare molto bene un mestiere che sino a pochi anni fa non esisteva. E se l’offerta è ben retribuita, vuol dire che c’è una grande domanda. Tutti indignati nei confronti della Ferragni, poche domande invece sulle decine di milioni di persone che la seguono. Il problema sta certamente da una parte, ma ancor più dall’altra: il problema non sono gli influencer, ma le persone che si fanno ammaliare: se non ci fossero i follower, non ci sarebbero gli influencer.
Rimane, soprattutto, la difficoltà – per tutti noi – di rapportarsi e confrontarsi con il mondo dei social, quello che possiamo definire il “sesto potere”. Dopo la stampa e i mezzi di comunicazione di massa (“Quarto potere”, definizione nata in Inghilterra alla fine del Settecento e “consacrata” dal film del 1941), dopo il ruolo della televisione (“Quinto potere”, film del 1976), oggi la galassia dei social rappresenta una dimensione che ha la capacità di determinare il “comune sentire” di una comunità, ma anche le storie delle singole persone. La vicenda del suicidio della ristoratrice piemontese, attaccata sui social, ne è una dimostrazione. Perché, come scrive Gigio Rancilio (responsabile dei social di Avvenire), le parole che finiscono in rete sono come il dentifricio, una volta spremuto, non può tornare nel tubetto. “Perché tutti abbiamo i nostri punti fragili e quando ti senti criticato da cento persone, ti sembra che tutto il mondo punti il dito contro di te. Ti senti sommerso. Ti senti affogare. Ti senti solo e abbandonato. Qualcuno ci ha fatto il callo e magari ci sguazza pure, la maggior parte di noi ne esce ferita. Alcuni, i più fragili, a volte finiscono annegati in questo mare d’odio”.
Tutti siamo chiamati a fare i conti con il “Sesto potere”, con il potere – spesso oscuro – dei social network. Anche chi non li frequenta. Perché l’effetto di ciò che nasce e si sviluppa sulle piattaforme ha la capacità di espandersi con le potenzialità, per capirci, dello stato gassoso: passa ovunque e nessuno può illudersi di non essere raggiunto. Succede per le fake news, succede per le campagne d’odio, succede per l’esaltazione di certi valori (e disvalori) o per la demonizzazione delle idee altrui.
Oggi la figura dell’influencer ha una connotazione negativa, ma ci sono anche modelli che veicolano stili di vita positivi. È il caso di Alberto Ravagnani, un prete che usa i social – con il linguaggio dei social – per parlare del vangelo. Non nasconde il suo essere prete, si presenta con la maglia scura e il colletto ecclesiastico e ha quasi 200 mila follower. Parole semplici, gestualità tipica di chi parla alla telecamera di un telefonino, la musica in sottofondo per favorire il coinvolgimento emotivo. I suoi post registrati anche in palestra, gli consentono di parlare della fede in contesti dove si cura il corpo e si cerca di parlare anche della dimensione spirituale. Non è il solo, lo stesso papa Francesco ha un profilo X (come si chiama oggi Twitter di Elon Musk) che conta – nelle diverse pagine, in lingue diverse – milioni di follower (5 milioni su quello italiano, altrettanti su quello in lingua spagnola, 18 milioni su quello in lingua inglese, persino 500mila su quello in lingua araba). I social sono ormai uno strumento indispensabile per comunicare e per stabilire connessioni.
È importante esserci, ma ciò non è sufficiente per contrastare la loro deriva. Ciò che manca è una “istruzione al digitale”: andiamo a scuola per imparare a leggere, scrivere e far di conto, ma tutti noi, soprattutto i ragazzi e i giovani, arriviamo invece nella “piazza globale” senza alcuna preparazione, senza gli strumenti per poter capire, scegliere e difenderci. Chi deve farlo? «La scuola, la famiglia, i media», spiega padre Antonio Spadaro, sottosegretario del dicastero vaticano per la Cultura e l’educazione. «è un processo lento e complesso per il quale non ci sono ricette. Dialogare e porsi domande. Ai ragazzi, piuttosto che negare l’utilizzo dei social, è meglio chiedere: perché ti fidi di questa persona? Il più delle volte non c’è risposta. Prima valeva l’autorevolezza della fonte, ora comanda il passaparola, i like e i followers, un meccanismo che si autogenera in modo incrementale. Nulla da criminalizzare ma dobbiamo tener presente che siamo esseri umani in carne e ossa».
La grande sfida è dunque rimane quella della cittadinanza digitale. «Si devono trovare anticorpi sociali, recuperare il senso di autorevolezza e affidabilità, capire come discernere chi seguire. è un compito educativo».
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