Ci sono almeno due sequenze che racchiudono, ancora meglio di altre, la poetica di Timbuktu, il film del mauritano Abderrahmane Sissako che concorreva all’Oscar come miglior film straniero (ma non ha vinto). La partita di calcio nel deserto giocata, anzi, mimata, da un gruppo di ragazzi senza pallone. E il canto di una ragazza sotto le frustate degli islamisti radicali che la stanno torturando proprio perché sorpresa a cantare. Due divieti, tra i tanti, imposti da una banda di jihadisti che hanno occupato l’antica città del Mali e alla quale la popolazione oppone una fiera resistenza quotidiana manifestando un continuo anelito alla libertà di espressione messa in discussione fin dentro le mura di casa.
Sissako è uno dei non molti registi africani che si sono ormai imposti a livello internazionale insieme a Ousmane Sembene, Souleymane Cissé e Idrissa Ouedraogo. Con Timbuktu ha fatto incetta di César (i David di Donatello francesi) e vinto il premio della giuria ecumenica all’ultimo festival di Cannes.
Il film prende spunto dalla realtà (l’occupazione della città maliana, simbolo di una cultura millenaria e della fede musulmana, da parte dei radicali islamici e la lapidazione di una coppia non sposata) per disegnare un intenso apologo contro qualsiasi tipo di sopraffazione dell’uomo sull’uomo. In questo caso contro l’islamismo radicale e non certo contro la fede musulmana. Sissako distingue e puntualizza. La figura dell’imam che prova a dialogare e ragionare con il capo della banda, peraltro invano, cercando di farlo recedere dalle violenze praticate, ne è la palese raffigurazione.
Timbuktu procede alternando il quotidiano e soffocato scorrere della realtà cittadina a quello di una coppia (Kidane e Satima) che vive nel deserto, in una tenda, con la figlia Toya. Hanno una piccola mandria di vacche, la loro esistenza procede al ritmo lento delle consuetudini e della tradizione fino a quando si incrocerà, tragicamente, a causa di un omicidio involontario, con la realtà stravolta dalla presenza jihadista.
Paesaggi di una bellezza commovente, resa come meglio non si potrebbe da una fotografia sontuosa e lirica, fanno dell’opera del regista un esempio di pulizia stilistica alla quale si accompagna una ferma presa di posizione, senza ambiguità o compromessi, nei confronti dell’abominio rappresentato dal terrorismo islamico. Sissako, 53 anni, nato a Kiffa in Mauritania, emigrò in Malì per tornarvi nel 1980 prima di sbarcare a Mosca (ha studiato cinema alla Vgik) e trovare poi casa in Francia dove ha iniziato la carriera tra corti e documentari per approdare in seguito al lungometraggio (Aspettando la felicità e Bamako hanno ottenuto più di un riconoscimento festivaliero e di critica).
Timbuktu, ottima finora la risposta del pubblico, è in sala sino a lunedì all’Astra di Trento. Più avanti, dal 24 al 26 aprile, sarà al Concordia di Volano.
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