La corsa ad occupare gli spazi della comunicazione non è una novità, ma va sempre più esasperandosi. L’ultima fase è la costruzione del confronto fra due “donne”, una a capo del partito di maggioranza relativa, l’altra al vertice del principale partito di opposizione. La prima è anche la premier del governo in carica, ma spesso sembra che ciò sia solo un contorno. Nella contesa cerca con caparbia di inserirsi Conte, che non si sa bene a capo di cosa sia, perché M5S è più un marchio di agitazione che non una forza politica.
Sta di fatto che la tendenza è a far scivolare il dibattito nella comunicazione, anzi per parlare come si usa oggi nello “storytelling”, cioè nella narrazione autoreferenziale che parla di un mondo di riferimento che ogni comunicatore si costruisce come gli fa comodo. Naturalmente con la reciproca accusa di ignorare così il mondo vero: argomento che fa sempre presa su un pubblico che non si raccapezza nelle fantasie di questa politica autoreferenziale.
Il mondo vero è là fuori e presenta problemi con cui è difficilissimo confrontarsi perché non ci sono soluzioni comode a portata di mano. Prendete il tema conosciutissimo, ma prudentemente evitato da tutti del peso abnorme del nostro debito pubblico. È la nostra palla al piede nei rapporti con l’Unione Europea, è la fonte del carico di interessi che gravano su di noi, è il limite che non consente seri investimenti nel miglioramento delle strutture del nostro welfare (dalla sanità agli asili). Quando il teatrino della politica si occupa del tema, per lo più è solo o per vantare di aver fatto qualcosa di meglio dei governi precedenti (sempre con un occhio ai particolari, mai al quadro generale) o per criticare che non si fa abbastanza inventando spese ulteriori la cui copertura è affidata ad alchimie fantasiose.
La amara constatazione è che mancano sedi appropriate di confronto in cui far maturare riflessioni che vadano al cuore dei problemi. Immaginarsi che ciò possa avvenire in parlamento è una illusione: un po’ perché le Camere sono oberate di lavoro per un continuo di decreti legge, leggine e atti di intervento vari che vanno esaminati, molto più perché comunque sono sedi di confronto fra partiti e fazioni, il che limita alquanto le possibilità di costruzione di una coscienza comune nel paese (i lavori in commissione, dove spesso lo scambio fra le parti è possibile, raramente arrivano all’attenzione del pubblico). Figurarsi se il confronto si può avere nelle kermesse di partito o nella marea di talk show da cui siamo inondati.
Eppure proprio la vicenda della legge di bilancio che una volta di più passerà faticosamente e senza dibattito al limite della scadenza per non finire nell’esercizio provvisorio dovrebbe ammonire sulla vacuità dei teatrini della politica. Si è osservato giustamente, per esempio con autorevolezza da un ex segretario generale della Camera, che un dibattito il quale non esamina gli articoli della legge uno per uno come previsto dalla Costituzione è uno sfregio al sistema parlamentare soprattutto perché gravato dal fatto che poi anche quel poco di dibattito che c’è stato viene cancellato dal meccanismo del maxi emendamento governativo su cui viene posta la fiducia. Così le critiche e le alternative non vengono neppure messe in votazione, ma si deve semplicemente decidere se far cadere o meno il governo in carica: come può andare a finire lo si sa a priori.
Il fatto è che gran parte degli interventi dei parlamentari, sia di maggioranza che di opposizione, non riguardano differenti impostazioni del bilancio o revisioni degli indirizzi di politica economica, bensì piccole promozioni di interessi di gruppo, di lobby, di corporazioni. Mancette si direbbe per usare un linguaggio volgare. Di qui la forza del governo che, condizionato dalle valutazioni delle sue burocrazie specializzate le quali hanno davanti il quadro realistico della situazione, finisce per essere il promotore se non proprio dell’equilibrio del sistema, delle possibilità realistiche di mantenere a galla la situazione generale. Con il vantaggio, non va dimenticato, che così è il governo che diventa il vero arbitro delle mancette che può elargire nelle pieghe del bilancio (alcune magari dando anche qualche contentino alle opposizioni in vista di qualche scambio futuro).
Questo è purtroppo il quadro di una situazione che sarà resa ancor meno governabile dall’arrivo dell’anno elettorale 2024. Qualcuno avrà notato che già si parla di aggiustamenti di bilancio e di ripresa di mancette che nell’immediato non si possono elargire.
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