Davanti al segno del presepio – sempre più ricco di richiami come documentiamo nel numero speciale natalizio di Vita Trentina – vien da piangere a vedere quella Terra Santa dalle palme fruttuose oggi devastata da bombe mortifere. E quel Bambino, pure nato nella precarietà, sembra unirsi col pianto a centinaia di altri neonati palestinesi che appena venuti alla luce lottano insieme alle loro madri per trovare cure in ospedali ormai stremati. In casa le stradine di muschio delle nostre Betlemme contrastano con le vie di Gaza, colme di rovine e di ordigni bellici, come tante altre città della “guerra a pezzetti”.
L’annuncio del Salvatore a Beit-Dahur, il campo dei pastori, risuona oggi assieme al conto delle vittime – almeno 19 mila solo nel conflitto israelo-palestinese – che sono destinate ad aumentare nell’attuale stallo delle iniziative di pace, nella tensione radicalizzata in Cisgiordania e nell’espansione ai Paesi vicini.
Come e dove ritrovare speranza? È la domanda che Francesco, giusto 800 anni fa, si fece dopo essere stato pellegrino in Terra Santa tra il 1219 e il 1220 e aver visto probabilmente la Grotta di Betlemme. Se si è inventato quel “segno ammirabile” ancora oggi eloquente è perché ha toccato con mano “i disagi di quella nascita” e la concretezza di quella vicenda familiare (erano due profughi in cerca di un tetto) che meritava di essere resa visibile: per offrirla alla contemplazione, di generazione in generazione. Ma l’intuizione straordinaria del santo di Assisi fu di proiettare nel presepio il mistero dell’Incarnazione dentro la storia presente e futura: “Il Figlio di Dio che si è incarnato a Betlemme, nascendo da Maria – spiegano i biografi francescani – è lo stesso che si fa piccolo e si offre a noi quotidianamente attraverso l’Eucaristia. Ed in questo modo nutre la nostra vita”.
Per i cristiani – ma non solo, come osserva nei suoi Sentieri anche Franco de Battaglia – la speranza del Natale non è una stella cometa, da riporre in soffitta a fine corsa : è un fatto che ha cambiato la storia ma che – proprio nell’Eucaristia e nella Parola – si rinnova per secoli nei secoli, nel nostro quotidiano. Tornare a Greccio, all’intuizione “eucaristica” dell’Incarnazione del Figlio di Dio, c’induce ad asciugare le lacrime della rassegnazione, come abbiamo cercato di fare stimolati dalle letture d’Avvento e dalle tre “storie di speranza” raccontate su Vita Trentina: la nuova comunità per malati di AIDS a Vezzano, i medici amici del GRIS e l’impresa sociale di “Nuovi Orizzonti”.
Lo stesso Francesco d’Assisi aveva sperimentato i conflitti che insanguinavano il Medio Oriente. Non vi era entrato però da combattente, ma in un modo che ci deve ispirare: “Le sue parole non sono violente, i suoi atteggiamenti non sono violenti, e rifiuta anche esplicitamente di portare armi”. È il richiamo lanciato dalla Grotta di Betlemme da frà Francesco Patton nel collegamento del 2 dicembre scorso con Rovereto: “Nel guardare ai conflitti, dobbiamo fare attenzione alla sofferenza concreta delle persone, a non diventare “tifosi” come se ci fossero due squadre che competono per una coppa. La guerra è sempre una tragedia con tanti morti e tanta sofferenza. Di fronte a questa situazione, siamo chiamati ad avere un atteggiamento di “equivicinanza”, come lo chiama papa Francesco, un atteggiamento di profonda empatia: bisogna sentire la sofferenza delle persone, degli uni e degli altri. E aiutare gli uni a sentire la sofferenza degli altri e viceversa. Solo questo permette di passare da una sofferenza che genera sete di vendetta, risentimento e odio a una sofferenza che può generare compassione, misericordia e anche percorsi di riconciliazione”.
Il presepio “chiama” poi la preghiera. Nell’Ave Maria diciamo “nell’ora della nostra morte” e dovremmo pensare – come ci ha invitato a fare lunedì l’arcivescovo Lauro – a quanti non possono sentire l’abbraccio di una madre.
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