Quarant’anni fa si chiedeva di “lavorare meno, per lavorare tutti”. Dal punto di vista pratico, non ebbe un grande successo: una rivendicazione sindacale che le imprese non presero mai sul serio. Oggi quel “lavorare meno, per lavorare tutti” è cambiato: “lavorare meno, per lavorare meglio” e a crederci sono proprio le grandi aziende europee che devono fare i conti con un mercato del lavoro dove non bisogna più limitarsi a considerare domanda e offerta di manodopera, ma bisogna partire dalla qualità del lavoro. Quel “lavorare bene” che risulta determinante non solo per il benessere delle persone, ma anche per la produttività complessiva dell’azienda: lavorare meno, per stare meglio e produrre di più.
Nel corso delle ultime settimane, due grandi aziende italiane hanno deciso di applicare per i propri lavoratori un orario di lavoro articolato su quattro giorni e non più su cinque. Va detto subito: un giorno in meno di lavoro a settimana, ma a parità di salario e con l’impegno delle imprese a stabilizzare i lavoratori precari o assumere nuovo personale.
A fine novembre, la prima è stata Luxottica. L’azienda che produce occhiali, leader a livello mondiale, ha deciso di introdurre – per 20 settimane all’anno – la settimana corta di quattro giorni per i propri dipendenti, oltre 20 mila, compresi quelli dello stabilimento di Rovereto. Si parte a livello sperimentale, ma l’esperienza maturata negli altri Paesi europei sembra dimostrare che la strada può essere quella giusta.
Qualche giorno fa, è stata Lamborghini a firmare con i sindacati un accordo integrativo che prevede la “settimana corta” a parità di salario e con l’impegno dell’azienda ad assumere 500 persone. Peraltro, il calendario settimanale “ristretto”, dal lunedì al giovedì, è già applicato anche in altre due aziende italiane: la Lavazza e Banca Intesa.
Non è forse un caso che le aziende che stanno procedendo in questa sperimentazione siano in qualche modo “aziende europee”, capaci cioè di cogliere i nuovi segnali che arrivano dalle comunità dei lavoratori e, al tempo stesso, comprendere cosa può essere più vantaggioso per l’azienda stessa. I dati dimostrerebbero, che laddove i lavoratori lavorano meglio, la produttività complessiva è destinata ad aumentare.
Il mondo del lavoro e delle imprese si trova infatti a fare i conti con la richiesta delle persone di poter disporre di maggior tempo per la propria vita e per il proprio benessere. È un processo che gli studiosi stanno osservando da tempo e che è letteralmente esploso dopo la pandemia: il lavoro è importante per vivere, ma “non si vive per lavorare”. Un fenomeno che viene chiamato “Yolo”, acronimo di “You Only Live Once” (si vive una volta sola), che interessa soprattutto i giovani e che si è clamorosamente manifestato con l’onda delle “Grandi dimissioni” dai posti di lavoro. Fenomeno che riguarda tutti i Paesi europei e che conoscono bene anche le aziende trentine, non solo quelle dei servizi (anche se sono proprio queste a soffrirne maggiormente): dipendenti non se ne trovano, né per fare i camerieri, né per fare il ragioniere in banca.
C’è da aggiungere che non è solo il tempo lavoro a contribuire al benessere dei dipendenti e dunque alle scelte dei lavoratori. Da molti anni, le aziende più avvedute hanno iniziato a garantire all’interno dei posti di lavoro quei servizi che determinano la qualità della vita delle persone: dagli asili nido alle opportunità mediche, dalla flessibilità negli orari ad un vero e proprio welfare aziendale. Anche in questo caso, in prima linea sono state proprio le aziende che operano anche all’estero, in Europa e negli Stati Uniti.
Nel nostro Paese, dicono gli analisti, manca una cultura del “nuovo modo di lavorare”. L’esempio più clamoroso è senz’altro quello dello smart working che – in ancora troppe situazioni – viene inteso come strumento da utilizzare solo in caso di necessità aziendale, o di emergenza (la pandemia), o più generalmente come “concessione” da riconoscere (o non riconoscere) ai propri dipendenti. L’idea è quello che lo smart working sia semplicemente “un lavoro a domicilio”: “la pacchia è finita, si torna al lavoro”, aveva sentenziato un ministro della funzione pubblica quando, terminata l’emergenza Covid, erano state revocate le disposizioni per il lavoro a distanza. Senza rendersi conto, invece, che lo smart working non è semplicemente un lavoro da fare a casa. È un modo diverso di lavorare, soprattutto per chi deve rapportarsi, spesso in maniera esclusiva, con una professionalità basata sulle nuove tecnologie. E il lavoro a distanza (magari non tutti i giorni, per garantire comunque ai lavoratori anche la socialità all’interno della azienda) offre una diversa qualità della vita, un maggior benessere al lavoratore.
Richiede però un cambio di cultura, alle aziende e ai dipendenti: passare dalla logica del cartellino a quella del raggiungimento degli obiettivi. E non è un passaggio semplice in un Paese che è rimasto, preoccupatamente, un “Paese analogico”, incapace di ragionare in termini digitali.
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