Con “The Old Oak” Ken Loach si conferma un granitico avamposto per i diritti dimenticati

Il regista britannico Ken Loach, all’età di 87 anni e con una filmografia densa di titoli significativi, due volte Palma d’oro a Cannes, non ha di certo bisogno di presentazioni. È un punto di riferimento nel cinema di impegno civile, attento alla condizione degli ultimi, tra lavoratori precari e disoccupati. Con i suoi precedenti titoli “Io, Daniel Blake” (2016) e “Sorry We Missed You” (2019) ci aveva consegnato delle suggestioni struggenti sulla società inglese ed europea, un quadro senza apparente possibilità di salvezza. Nel 2023 il regista è tornato dietro alla macchina con “The Old Oak”, raccontando una storia di sofferenza, ma anche di ritrovata fiducia. A firmare il copione è lo stesso Loach con il fidato Paul Laverty.

La storia. Siamo nel 2016 in Inghilterra del Nord, in una cittadina un tempo legata all’attività mineraria e ora con un’economia implosa, segnata da povertà e diffusa disoccupazione. Quando arrivano delle famiglie di profughi siriani, gli abitanti rispondono con freddezza: c’è paura, non tanto del “diverso”, quanto di nuove bocche da sfamare. E così si verificano episodi di odio e intolleranza.

A dare un cambio di passo alla situazione sono il proprietario di un pub della zona, TJ Ballantyne (Dave Turner), e una ragazza siriana, Yara (Ebla Mari). Insieme organizzano dei pranzi domenicali per la comunità. Da lì (ri)parte il dialogo, il cammino di convivenza solidale…

Si esce ogni volta un po’ sottosopra, a livello emotivo, dalla proiezione di un film di Ken Loach. Il regista britannico picchia duro, invitandoci a guardare nelle zone d’ombra della società. Con “The Old Oak” Loach ci regala un altro magnifico quadro sociale, livido sì, ma anche denso di speranza. Ci parla di ultimi, del nostro presente, tra lavoratori in affanno, nuovi poveri e migranti siriani.

Un’umanità che sulle prime fatica ad andare d’accordo, a causa di pregiudizi e timori. A unire alla fine è il coraggio della speranza, quella di una giovane fotografa siriana e di un cinquantenne inglese. È una tavola imbandita di cibo e storie di radici, tradizioni, in un vecchio pub; lì si forma una nuova comunità, rigenerata e includente. Sboccia finalmente l’armonia, quella che ben riassume la frase ricorrente nel film: “When We Eat Together, We Stick Together”.

“Quando mangiamo insieme, siamo davvero uniti. Formiamo una comunità”. Ken Loach si conferma un granitico avamposto per i diritti dimenticati, custode di un’umanità disgraziata; maestro di un cinema di impegno civile che scuote lo sguardo e cura l’animo distratto. (Sir)

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