Filippo Zibordi, zoologo e divulgatore: “Possiamo convivere con l’orso, ma va rinnovato il patto sociale con i territori”

L’esperto Filippo Zibordi, zoologo e divulgatore, invita a superare le polarizzazioni. “Possiamo convivere con l’orso, ma va rinnovato il patto sociale con i territori”.

In libreria fresco di stampa c’è il suo ultimo libro L’uomo e l’orso possono convivere? (Edizioni Dedalo, novembre 2023, 192 pagine, 16 euro). Il terzo con nel titolo la parola orso, anche se in quest’ultima opera Filippo Zibordi, zoologo e divulgatore, racconta da par suo l’incontro con altri otto carnivori, piccoli e grandi, delle Alpi, dall’ermellino (“I primi carnivori che ho studiato, il loro guizzare da una pietra all’altra mi ha spinto ad occuparmi di animali selvatici”) al tasso, dalla volpe al lupo, dallo sciacallo dorato alla lontra, che diventano spunto per riflettere sul nostro rapporto con gli animali selvatici. Zibordi si è occupato per 13 anni di ricerca, monitoraggio e comunicazione del progetto di reintroduzione dell’orso bruno in Trentino, collaborando con il Parco Naturale Adamello Brenta. Oggi segue progetti di salvaguardia di animali di montagna sulle Alpi e nel sud del mondo e insegna all’Università dell’Insubria.

Zibordi, con l’ibernazione degli orsi è facile prevedere un raffreddamento fino alla primavera delle feroci contrapposizioni intorno alla presenza dei grandi carnivori. Come superare la polarizzazione del dibattito?

Gli eventi degli ultimi anni, e in particolare la tragedia di aprile, hanno innescato una tempesta perfetta da tanti punti di vista. Dal punto di vista mediatico, perché i media hanno cavalcato le paure e le isterie che si sono create, polarizzando il dibattito. La politica ha soffiato sul fuoco. Invece che dare la parola alla scienza, sono stati lanciati, da più parti, proclami irrealizzabili e ciò ha ulteriormente polarizzato le posizioni e aumentato le paure delle persone.

Come se ne esce?

Dando voce alla scienza. Altrimenti si rimane polarizzati su due fazioni. Una è quella che ha visto nell’aggressione al giovane Andrea Papi la dimostrazione che la convivenza non è possibile. E quindi gli orsi, i lupi e tutte le specie nocive devono essere eliminati. L’altra fazione è quella che invece dice sì a tutti gli orsi, senza se e senza ma, e antepone la sopravvivenza di ogni singolo esemplare anche, addirittura, alla tutela dell’intera popolazione di orsi.

Sarà possibile ricucire questa frattura?

Non sarà facile. Sarà possibile solo tornando alla scienza, facendo riferimento ai documenti scientifici del progetto Life Ursus e al Pacobace, il piano di azione che prevede una serie di misure attuate poco e sempre peggio negli ultimi anni.

Quando nel 1996 partì il progetto c’era una diversa temperie culturale, un’attenzione nuova all’ambiente e alla biodiversità, un clima favorevole.

Prima di tutto, va sfatato una volta per tutte il mito che il progetto di reintroduzione dell’orso bruno sia nato da poche persone riunite in qualche palazzo a Trento e a Strembo (sede del Parco naturale Adamello Brenta, ndr). Il progetto si è fondato su una condivisione con gli amministratori locali, c’era un Comitato progetto orso che riuniva tutti i decisori politici, è stato fatto un sondaggio dalla Doxa con un risultato ampiamente favorevole al ritorno dell’orso.

In che momento è avvenuta la rottura? A cosa o a chi attribuirla?

Da una parte, ha giocato l’ambivalenza dell’orso: lo vediamo come l’animale feroce, pericoloso, ma anche come il Teddy Bear, l’orsetto di peluche con cui giocare. Riportare in un territorio una specie “ingombrante” come l’orso significa fare i conti con la realtà. Le pochissime aggressioni verificatesi sono poco significative dal punto di vista statistico, ma di grande impatto emotivo, anche perché in un caso si sono rivelate purtroppo mortali.

Significa fare i conti con i danni e con le limitazioni che la presenza dell’orso ci impone.

Se eravamo abituati a portare il cane senza guinzaglio, ora dobbiamo condurlo legato e ciò può apparirci una scocciatura. Se andiamo a correre nei boschi, dobbiamo essere pronti a percepire la presenza di animali che non vanno colti di sorpresa: quindi, niente cuffiette per ascoltare la musica. Chi pratica la pastorizia in quota deve riprendere quegli strumenti che permettono la convivenza con i grandi carnivori, orso e lupo, ma che costano fatica e denaro. Oggi l’orso è una presenza sicuramente più ingombrante, rispetto agli anni di avvio del progetto Life Ursus.

Tornando alla domanda, quali eventuali sbagli sono stati commessi ?

L’aver sottratto risorse alla gestione dell’orso è stato un errore. Grazie ai fondi europei, fino al 2004 l’attenzione sul progetto è stata molto elevata rispetto a tre assi fondamentali: la ricerca scientifica e il monitoraggio, che permetteva ai tempi non solo e non tanto di sapere in tempo reale dove fossero gli orsi, ma di conoscerne la popolazione in senso lato e di poter così valutare ad esempio quali fossero le aree potenzialmente più vulnerabili dal punto di vista dei danni, o quelle più frequentate dalle femmine con i cuccioli. Conoscenze che se noi oggi avessimo ci permetterebbero di gestire meglio la specie.

Che altro?

La comunicazione, che si è fatta bene fino al 2004 e poi è andata diminuendo fino quasi al silenzio. Parlare alle comunità locali non solo di quello che si deve fare se si incontra un orso, che pure è importante perché minimizza il rischio, ma anche dei presupposti che stavano alla base della presenza dell’orso.

Un aspetto molto divisivo è quello della gestione degli orsi confidenti.

Questi orsi vanno gestiti con decisione. Prima, attraverso azioni di dissuasione sparando proiettili di gomma, poi se necessario eliminando dalla vita libera gli individui problematici. Questo andava fatto con maggior coraggio negli ultimi anni, anche spiegando con chiarezza le motivazioni di determinate azioni. Di JJ4 andava comunicato chiaramente che è stata tolta di torno non per vendetta, ma perché così è scritto nei protocolli siglati fin dal 1997.

Una volta di più: affidarsi alla scienza. E seguirne le indicazioni. Anche quando possono apparire scomode o radicali: ad esempio, uno studio del Muse e dell’Università di Firenze pubblicato sulla rivista Ambio relativo agli effetti di lungo periodo sulla fauna selvatica della frequentazione escursionistica negli ambienti montani suggerisce di adottare misure per limitare l’accesso ad alcune aree dei parchi naturali nei periodi dell’anno più delicati per la fauna. Così da rendere meno traumatica la convivenza tra esseri umani e selvatici.

Chiudere delle parti del territorio è un’opzione da tenere presente, ma da usare con estrema cautela. Più che le eventuali ricadute su contesti che vivono di turismo, mi preoccupa soprattutto il fatto che ciò sarebbe vissuto dai residenti come la rottura del patto sociale stipulato a suo tempo. Quando sono stati reintrodotti gli orsi, era stato detto che ciò avrebbe comportato delle limitazioni tutto sommato ragionevoli. La chiusura di alcune aree sarebbe vista come il superamento di un limite che secondo me i trentini non vogliono superare. Meglio invece rafforzare le azioni di comunicazione, ad esempio informando chi va a compiere escursioni in un’area dove si sa che sono presenti femmine con i cuccioli che è bene che intensifichi quelle piccole contromisure che permettono di minimizzare i rischi: fare rumore, evitare la velocità; corsa e bicicletta sono tra le attività maggiormente a rischio orso.

“L’uomo e l’orso possono convivere?”: è il titolo del suo ultimo libro. Che risposta possiamo dare?

La risposta non è né un sì né un no. No, per alcune zone d’Italia. Sì, per le Alpi: ma solo se viene messa in atto una serie di azioni che fanno capo ai tre assi citati: ricerca scientifica, gestione (dalla posa dei cassonetti anti-orso al trattamento degli individui problematici e altre misure), comunicazione alle popolazioni locali. La sfida può essere vinta, ma ci vuole determinazione da parte della politica, che deve saper fare scelte coraggiose. Lo stesso coraggio che il Trentino ha dimostrato tra il 1996 e il 2004.

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