La politica italiana sembra incapace di sottrarsi al fascino (indiscreto) della radicalizzazione. Non bastassero le demagogie tradizionali, adesso si è arrivati al ritorno dello scontro fra sindacato cosiddetto di sinistra (la CGIL – la CISL saggiamente si è sottratta) e il governo della destra-centro. Tutto fa brodo per la competizione in vista delle elezioni europee che nella fantasia dei partiti si stanno trasformando nello scontro epocale che deciderà del futuro. Probabilmente di quello di un po’ di gruppi dirigenti delle forze politiche, dubitiamo molto che decida delle sorti del nostro paese.
L’agenzia europea di statistiche proprio nei giorni scorsi ha certificato un modestissimo incremento del PIL nella UE, un preoccupante 0,1%. Significa che, a voler essere ottimisti, siamo ad un passo dalla recessione e sicuramente già in una stagnazione preoccupante. Pensare che in una situazione del genere la soluzione stia nel cavalcare le plurime rabbie sociali che si possono suscitare e che aspettano solo la scintilla di innesco (vedi le fiammate di ritorno delle vecchie bandiere sulla questione palestinese) è indice di una miopia politica generalizzata che coinvolge destra, centro e sinistra più o meno in egual maniera.
L’incapacità di aprire tavoli di confronto sui grandi problemi è sotto gli occhi di chiunque voglia tenerli aperti. Da un lato abbiamo la crescente voglia della destra di impostare tutto nell’ipotesi di un referendum sulla riforma costituzionale che riguarda il cosiddetto premierato. La legge proposta è a dir poco scadente, si potrebbe con un pizzico di buona volontà arrivare ad un progetto condiviso che stabilizzi il ruolo del governo inserendolo in maniera equilibrata nel sistema di pesi e contrappesi della Costituzione, ma a destra prevale la sensazione che sarà possibile muovere a proprio favore il consenso riducendo tutto al mito del popolo che si sceglie il suo capo. La sinistra a sua volta si illude di poter cavalcare una tradizione ostile alla verticalizzazione del potere, tradizione che se guardassero bene c’è più nelle classi politiche che non nella pubblica opinione, la quale anzi spesso ama l’emergere di qualche “capo”, vero leader o più o meno scadente demagogo che sia.
Il ritorno alle vecchie contrapposizioni la fa da padrone. Così assistiamo alla riproposizione del mito di certa vecchia sinistra sul sindacalismo di battaglia a cui risponde l’antisindacalismo tradizionale di certa destra che vede le agitazioni come una voglia di alcuni di sottrarsi al lavoro per impedire a tanti altri di lavorare.
Lo scontro, piuttosto deprimente, fra Salvini e Landini, col primo che accusa l’altro di voler fare week end lunghi e il secondo che gli replica che il capo leghista non ha mai lavorato in vita sua non indica una gran cultura politica.
Contrapporsi a priori ad una legge finanziaria che sconta il fatto di non poter trovare soldi per soddisfare tutte le richieste in campo è un modo poco produttivo di fare dialettica politica. Non si può rifugiarsi nella demagogia di dire che non si trovano più risorse per sanità e scuola perché si favorisce l’evasione fiscale. Non che sia del tutto falso, solo che è mezzo secolo (a dir poco) che nessun governo (e ne abbiamo davvero avuti di tutti i colori) è stato in grado di avviare a soluzione il problema. Pensare che lo si possa fare oggi di colpo è pura fantasia.
Spingere sempre più il paese sulla strada di una sorta di guerricciola civile fredda (per fortuna, sperando che non diventi più calda) è una tattica suicida: se davvero la stagnazione non sarà superata e speriamo ci sia risparmiata una vera recessione, avremo un serio problema di sistema economico che torna in sofferenza dopo una discreta, per alcuni settori anche buona ripresa che si era avuta nell’anno passato.
Le opposizioni tengono conto solo in modo molto relativo di questo scenario, le destre non riescono a ragionare prescindendo da una atavica sete di piccole affermazioni di potere. Non stupisce che in un contesto del genere nell’opinione pubblica crescano le tentazioni parallele a lavorare per la difesa di ogni piccola corporazione coi suoi privilegi e/o di astrarsi dal confronto politico rifugiandosi in un “privato” che incentiva l’astensionismo elettorale e lascia mano libera a classi politiche sempre più autoreferenziali.
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