Il film racconta il disastro nucleare negli Urali tenuto nascosto per 30 anni
Tenendo fede al suo titolo che lo presenta come un Festival non solo della montagna ma della società, del cinema e della letteratura, accanto alle imprese alpinistiche il Trento Film Festival si è dimostrato particolarmente attento alle tematiche sociali che coinvolgono certe zone del pianeta con effetti anche di carattere globale. E ad aggiudicarsi l'Oscar trentino, ovvero la Genziana d'oro-Gran Premio Città di Trento del 62° Trento Film Festival, è stato un film come “Metamorphosen” di Sebastian Mez (prodotto in Germania nel 2013): il titolo è accattivante e tenebroso a un tempo e se con Ovidio queste trasformazioni diventano poesia universale o sublime, nel film di Mez prevale la tenebra, la minaccia oscura di un futuro non più certo.
Il giovane regista tedesco racconta la vita della popolazione di una remota e vasta zona degli Urali contaminata nel 1957 da un’esplosione nucleare: una catastrofe ambientale sconosciuta, tenuta segreta per 30 anni dal governo russo, della portata di Chernobyl e Fukushima. Il film ritrae la vita delle persone che, abbandonate a loro stesse, abitano ancora oggi lungo il fiume Techa in un ambiente altamente radioattivo. La giuria ne ha apprezzato la coerenza del linguaggio cinematografico, il rigore e l’essenzialità delle immagini in bianco e nero. Il paesaggio conserva il fascino dei paesaggi cari a Tolstoi, è pregno di una selvaggia bellezza, ma il triangolo nero su fondo giallo, simbolo nefasto di radiazioni, incombe come un monito per chi dovrà in futuro conciliare benessere e salvaguardia delle risorse naturali. L’enfasi è trattenuta, la retorica bandita, parlano le immagini con effetto scioccante. Si riflette, si pensa a come irrappresentabili saranno stati i pochi sopravvissuti condannati all’angoscia di quella enorme spada di Damocle che pende loro sul capo. Ma poi si vede con un moto di orgoglio suicida un vecchio contadino, rimasto nei suoi campi, mentre raccoglie e lava un ceppo di insalata.
La macchina da presa trasmette per lunghi secondi la tragicità di alcuni volti dei sopravvissuti – a tutto schermo – ripetutamente, per fissarne il loro fragilissimo legame con la vita.
Nel dipanarsi delle sequenze, la professionalità di Sebastian Mez ci è data da mirabili fotografie più che da una, pur valida, narrazione storico-documentarista.
Il film dovrebbe essere offerto alle scolaresche perché riflettano e facciano meglio dei padri.
(ha collaborato Farida Monduzzi)
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