In tutti i conflitti si contano i cosiddetti “danni collaterali”, cioè le vittime civili che incidentalmente sono state coinvolte in azioni di guerra. Ma i danni collaterali non si limitano agli aspetti militari. Toccano anche la politica e le istituzioni. Di fronte alla guerra fra Hamas e Israele ad uscirne con le ossa rotte è stata anche l’Unione Europea. Colte di sorpresa (come d’altronde Israele) dal feroce attacco di Hamas le istituzioni di Bruxelles sono piombate in un profondo caos. La prima mossa improvvida è stata quella del quasi sconosciuto commissario allo sviluppo, l’ungherese Oliver Varhelyi, che ha pensato bene di annunciare la sospensione e revisione degli aiuti ai palestinesi di Gaza. Aiuti consistenti, 691 milioni di euro, necessari per la popolazione civile ma su cui vi è il fondato sospetto che siano gestiti da Hamas secondo criteri di gestione del proprio potere interno. Il problema è che in attesa dell’inevitabile reazione militare di Israele, tagliare questa fonte di sostentamento va contro il diritto umanitario. In effetti di fronte alla reazione scandalizzata di alcuni stati membri le misure di sospensione sono state ritirate.
A rinfocolare le divisioni interne all’UE ci ha pensato subito dopo la stessa presidente della Commissione Ursula von der Leyen che senza consultare nessuno ha deciso un rapido viaggio a Gerusalemme per manifestare il forte sostegno comunitario al presidente israeliano Isaac Herzog. Mossa in parte dovuta alle drammatiche circostanze, ma che ha aperto un doppio fronte interno all’UE. Il primo è quello di non avere cercato un analogo contatto con Abu Mazen presidente dell’Autorità palestinese in Cisgiordania, negando con ciò l’ufficiale posizione di equilibrio dell’UE rispetto alle due parti in causa. Il secondo di avere largamente invaso le competenze del suo vicepresidente, Josep Borrel, l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione. A rendere questa faccenda ancora più eclatante è stata una lettera firmata da ben 798 funzionari delle Istituzioni comunitarie che si sono detti “imbarazzati dall’univoco sostegno a una delle due parti in causa” e dal venire meno di un più bilanciato approccio in una situazione estremamente complessa in cui non esiste il nero o il bianco. Il timore, più che giustificato, è quello di danneggiare l’immagine dell’UE come credibile attore internazionale e al contempo di nuocere alle relazioni con i paesi del Medio Oriente direttamente o indirettamente coinvolti nel conflitto israelo-palestinese.
Tenendo anche presente che nella Striscia di Gaza vivono un migliaio di cittadini provenienti dai 27 paesi dell’UE o con doppia cittadinanza israeliano-europea la cui incolumità è messa in forse dai bombardamenti di Israele e dalla probabile invasione militare del territorio. C’è da chiedersi per quale ragione l’UE fatichi a trovare una linea unitaria in politica estera. Non si tratta infatti solo di schermaglie fra due personaggi di Bruxelles dovute ad invidia o a incompatibilità di carattere, ma di un vero e proprio problema strutturale dell’Unione. Problema che involontariamente è stato sottolineato dallo stesso Borrel, che ha spiegato come le linee strategiche di politica estera vengono decise in seno al Consiglio europeo dai capi di governo dei 27, confermate poi dal Consiglio dei ministri degli esteri che, fra il resto, è presieduto dallo stesso Alto Rappresentante. C’è anche da aggiungere che il Presidente del Consiglio europeo è il belga Charles Michel che pure ha qualche voce in capitolo sulle questioni di politica estera. Insomma, un sistema decisionale che definire barocco e inefficace è riduttivo.
Alla luce della cacofonia di Bruxelles Michel ha dovuto riconoscere che il conflitto mediorientale sta generando molte frammentazioni, divisioni e polarizzazioni nella nostra società europea. Il guaio è che simili fenomeni si riflettono anche all’interno delle istituzioni. Prendiamo il ruolo della presidente della Commissione. è difficile negare che la sua azione di politica economica esterna non abbia dirette conseguenze anche in politica estera. Basti guardare al suo recente annuncio di volere aprire un’indagine sui sussidi statali cinesi alle auto elettriche, proposta che ha riflessi non indifferenti sulla posizione generale dell’UE nei confronti di Pechino. Parimenti sul tema dell’immigrazione è complicato tenere fuori dai giochi la von der Leyen. Ma anche qui, dall’interno delle istituzioni comunitarie, è stato visto male il suo viaggio di luglio assieme a Giorgia Meloni e Mark Rutte, il premier olandese, in Tunisia per offrire al presidente Kais Saied oltre 1 milione di euro destinato a contribuire a fermare le partenze dei clandestini da quel paese. D’altronde la Commissione gestisce il bilancio comune ed è quindi naturalmente orientata ad utilizzare questa potente leva per affrontare problematiche sia all’esterno che all’interno dell’UE.
Tuttavia, ciò che manca è un minimo di coordinamento fra le tre figure apicali, Michel, Borrel e von der Leyen tanto da farci tornare alla memoria la famosa frase di Henry Kissinger che chiedeva polemicamente quale fosse il numero di telefono di Bruxelles per coordinarsi nel campo della politica estera fra Usa e Ue. Malgrado tutti i miglioramenti istituzionali varati dai trattati di questi ultimi decenni molto poco sembra essere cambiato. A peggiorare le cose intervengono poi gli interessi nazionali dei singoli paesi membri che spesso non si allineano con gli orientamenti di Bruxelles. Basti qui citare l’episodio dell’ultimo Consiglio europeo in videoconferenza convocato d’urgenza il 17 ottobre proprio per fissare una posizione comune su Israele e Hamas: mancava il premier ungherese Viktor Orbàn che si trovava in Cina per la riunione dei paesi della Nuova Via della Seta organizzata da Xi Jinping. Occasione per una photo opportunity e una stretta di mano con Vladimir Putin, indiziato di crimini di guerra dalla corte penale internazionale dell’Aja. Davvero un bel messaggio per ribadire la sua distanza dai partner europei impegnati a trovare unità e coesione sul fronte della guerra in Medio Oriente, all’inizio della quale è suonato l’ennesimo campanello di allarme sulle insufficienze europee nel gestire un efficace e credibile ruolo internazionale. Una profonda riforma istituzionale è più che mai urgente.
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