432.156 elettrici ed elettori, 16 liste, 488 candidati. Sono i numeri del voto altoatesino di questa domenica. Un voto che avviene a 75 anni dall’entrata in vigore del primo Statuto di autonomia, a 51 dal secondo, a 31 anni dalla chiusura formale della vertenza davanti alle Nazioni Unite. In occasione del voto si sono mobilitate alcune articolazioni della Chiesa locale. La Commissione diocesana per i problemi sociali e del lavoro ha posto ai partiti in lizza cinque domande, riguardanti la giustizia sociale, l’ambiente, l’equità del lavoro, la famiglia e la domenica libera. Hanno risposto in sei formazioni politiche: Süd-Tiroler Freiheit, Verdi, JWA – Wirth Anderlan, Die Freiheitlichen, Centro Destra, Süddtiroler Volkspartei.
Un appello congiunto ai candidati è stato pubblicato da Consulta delle Aggregazioni laicali e Katholisches Forum. Il primo tema su cui si pone l’accento è la coesione sociale. Non è stata solo la pandemia a dimostrare che una società coesa non può essere data per scontata. Sempre più persone in Alto Adige fanno esperienza del fatto che i disagi e le difficoltà non trovano risposte politiche adeguate. Preoccupa anche una crescente mancanza di fiducia nelle procedure democratiche per la formazione della convivenza sociale. Questi fattori mettono a rischio il consenso sociale di base. La volontà di prendere sul serio i bisogni delle persone più vulnerabili, le preoccupazioni delle persone ai margini dell’economia e della società è un prerequisito fondamentale per garantire una rete di sicurezza sociale.
Un secondo tema è quello della crisi climatica e della relazione tra il modello economico e la tutela dell’ambiente. Dai rappresentanti del popolo ci si aspetta che si impegnino seriamente per approfondire la questione della crescita (o della decrescita) e dei limiti che dobbiamo porci, che si tratti del turismo, del settore energetico, dell’agricoltura, del commercio o della mobilità.
Qual è però il “linguaggio della politica”, amplificato da vecchi e nuovi media? Il linguaggio, dicono le organizzazioni laicali, è un indicatore efficace del livello di stima e rispetto esistente nella società. Questo è particolarmente vero per il linguaggio usato nel discorso politico. Il linguaggio politico è uno strumento potente, ha un impatto sulla società. Esso può acuire le divisioni o invece contribuire a disintossicare il discorso sociale dalla brutalizzazione linguistica, a creare una rete di coesione sociale e ad aprire la strada per una comunità conviviale.
Infine il riferimento all’ospitalità, alla reciproca accoglienza. “L’ospitalità verso gli stranieri, gli altri, coloro che la pensano diversamente, i bambini e i giovani, i socialmente deboli, gli anziani e i malati, così come l’ospitalità verso altre culture, altre religioni o la natura, è ciò che tiene insieme una società nel suo nucleo”. Questo atteggiamento non può essere imposto per decreto. “Ma può essere incoraggiato e reso possibile attraverso decisioni politiche e condizioni quadro adeguate”.
Grande assente, tra i punti offerti esplicitamente alla riflessione, quello della compartecipazione dei gruppi linguistici alla gestione del bene comune. Quasi come la questione “convivenza” fosse ormai messa in archivio (o “rinviata”, ci direbbe l’indimenticato Piero Agostini). In realtà il ragionamento sui rapporti e gli equilibri tra i gruppi linguistici è oggi diventato un tabù. Uno di quei temi che è bene non toccare per non doversi occupare (per risolverle) delle contraddizioni ad esso legate ad ogni livello della società, incluso quello ecclesiale. Questo in un mondo che in ogni sua parte si incendia proprio attorno a problemi di convivenza, di rispetto delle diversità culturali, alla mancata partecipazione e all’incapacità, direbbe papa Francesco “di vivere insieme nelle differenze”.
Del resto proprio i (cripto) nazionalismi e gli individualismi sono fattori non solo di contorno, spesso elementi scatenanti della “terza guerra mondiale a pezzetti” che stiamo vivendo.
Lascia una recensione