Diagnosi artificiale, successo o facile illusione?

La storia di Alex, un bambino americano malato, è finita sui giornali di tutto il mondo. Il bimbo soffriva di diversi disturbi e i genitori avevano consultato a ripetizione numerosi specialisti senza, peraltro, ricavarne una diagnosi precisa e dunque senza poter arrivare ad una terapia efficace. La mamma di Alex ha raccontato che in quasi tre anni si era rivolta a 17 specialisti: da ognuno aveva avuto una risposta insoddisfacente, nel senso che, nonostante le cure, le condizioni di salute del figlio continuavano a peggiorare. Una sorta di vicolo cieco dal quale era impossibile uscire. A quel punto, presa dalla disperazione, la donna ha provato ad inserire nella ChatGpt tutto quello che c’era – “riga per riga” – nelle note della risonanza magnetica. Il sistema basato sull’Intelligenza artificiale ha dunque fornito la sua risposta (“sindrome del midollo ancorato”) che risultava oltretutto coerente con tutti i sintomi che affliggevano il bambino. Una diagnosi che è stata poi confermata da una specialista. Titoli dei giornali: “l’Intelligenza artificiale (AI) riesce a fare ciò che 17 medici, in tre anni, non sono riusciti a fare”.

Una storia che rischia di creare facili illusioni perché dietro ad un successo, ancorché dimostrato e confermato, esiste però – ancora – una serie di risposte della ChatGpt che si sono rivelate sbagliate, o incomplete, o contraddittorie. Dunque, non siamo di fronte ad un sistema in grado di fare miracoli. Tutto questo, prima di ogni altra considerazione, va sottolineato in maniera molto forte: per non creare illusioni e per fare in modo che non ci sia la rincorsa alla “diagnosi fai da te” attraverso questi nuovi strumenti che sono già nella disponibilità di tutti. Del resto, da anni i medici combattono le autovalutazioni fatte con Google, direttamente sullo smartphone, come se un motore di ricerca fosse in grado di competere con anni di studi universitari e soprattutto con l’esperienza sul campo.

Dopo aver sottolineato e ribadito tutto questo, si deve aggiungere, però, che proprio il campo della diagnostica medica è quello in cui l’AI può fornire contributi fondamentali. Già oggi succede, per fortuna: se ogni medico è chiamato a valutare sulla base della propria esperienza, aver la possibilità di consultare banche dati che contengono l’esperienza di migliaia di colleghi (di ogni parte del mondo) offre l’opportunità di moltiplicare in maniera esponenziale la casistica e dunque anche la capacità di individuare i riferimenti per le diagnosi e per le terapie.

Tutto ciò non ci deve stupire, semmai dobbiamo attrezzarci con valutazioni a più ampio raggio. In primo luogo, nel campo del rapporto tra l’Intelligenza artificiale e la capacità dell’uomo di saper controllare e indirizzare questo “nuovo mondo”, tenendo conto, peraltro, che le “chat generative AI” hanno avuto il merito di rendere evidenti le opportunità (e i rischi) di un meccanismo che è già tra noi, che sta trasformando il nostro modo di agire, che ci regala strumenti utilissimi (pensiamo alla tecnologia di nuova generazione delle nostre automobili), ma ci obbliga a delicate riflessioni sulle conseguenze etiche delle “scelte” determinate dall’Intelligenza artificiale.

Nei giorni scorsi, il Senato degli Stati Uniti ha organizzato un incontro, a porte chiuse, con i principali protagonisti del mondo AI: da Bill Gates e Elon Musk, da Zuckerberg a Sundar Pichai (Ceo di Google). Ventidue top manager che oggi sono alla guida dei motori che stanno cambiando il mondo. La valutazione unanime, è stato spiegato, è che, oggi, è necessario dare una regolamentazione all’Intelligenza artificiale. Si tratta di una svolta storica perché proprio gli Stati Uniti, negli anni Novanta, stabilirono che tutto ciò che riguardava le innovazioni doveva essere lasciato libero, senza vincoli di norme e regole: un iper-liberismo che ha creato dei veri e propri oligopoli, dove poche società, nate in quegli anni, hanno oggi il controllo assoluto del mercato e sono in grado di determinare, con i propri strumenti e i propri servizi (da Microsoft a Google, dai social di Meta agli smartphone di Apple), la vita delle persone.

Senza dimenticare, nel campo dell’informazione, i rischi connessi al dominio degli algoritmi che sono capaci di determinare quale notizia può passare e quale, invece, deve essere nascosta; quali sono le “verità” da far emergere e quali, invece, è meglio che finiscano su un binario morto.

In ballo, è evidente, ci sono le vite delle comunità e, in definitiva, delle democrazie. Una questione che merita di essere approfondita anche alla luce del documento del Dicastero per la Comunicazione del Vaticano (“Verso una piena presenza. Riflessione pastorale sul coinvolgimento con i social media”). Ne riparleremo.

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