22 ottobre 2023 – XXIX Domenica TO A
Is 45,1.4-6; 1Ts 1,1-5; Mt 22,15-21
«Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Mt 22,21
Che rapporto devono avere i cristiani con gli stati all’interno dei quali si trovano a vivere? Come si fa ad affermare insieme la laicità dello stato (e della politica) e la dimensione politica e sociale della fede personale del cristiano? Queste questioni sono di estrema attualità per noi, credenti in Gesù Cristo, che viviamo dentro la storia e dentro forme di stato regolate da ordinamenti concreti, in un tempo percorso dai fremiti della crisi sia del senso religioso che del senso dello stato, in una situazione politica spesso contraddittoria che vede facilmente nei credenti un serbatoio di voti da corteggiare (in tempo di elezioni) ma anche (passate le elezioni) una realtà portatrice di istanze etiche irritanti di volta in volta le destre e le sinistre e talvolta entrambi.
Le letture di questa domenica sono oltremodo illuminanti per impostare bene la questione. C’è una realtà ultima, che è Dio e il suo piano provvidenziale di salvezza. Su questo piano provvidenziale di Dio ci fa riflettere la prima lettura, dicendoci che Dio si serve perfino di un re pagano, Ciro, per far procedere la storia della salvezza. Accanto a questa realtà ultima si trovano una serie di realtà penultime dentro le quali il piano provvidenziale di Dio gradualmente si incarna, facendo talvolta passi avanti e talvolta passi indietro: sono le varie forme di stato, le organizzazioni sociali e politiche che funzionano da corpi intermedi, e le persone concrete che agiscono al loro interno.
Quando Gesù nel Vangelo enuncia, in una situazione concreta, il principio del “Date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio” non propone né una cieca obbedienza a qualunque forma di stato (questa è l’obbedienza richiesta dagli stati totalitari e dalle dittature di ogni epoca), né una riduzione della dimensione religiosa ai soli atti di culto (i cristiani rinchiusi in sacrestia e privi di diritto di parola in ambito pubblico). Fin dalla prima generazione, i cristiani concepiscono il culto come una realtà che dà forma alla vita di tutti i giorni, sono impegnati per il bene degli stati nei quali vivono ma anche radicalmente critici nei confronti di quelle autorità che propongono l’adorazione dello stato stesso, del re o dell’imperatore. Per rendersene conto è sufficiente leggere la “lettera a Diogneto”, un testo anonimo del II secolo, e approfondire l’attuale magistero sociale della Chiesa.
Gesù nel Vangelo non propone una contrapposizione, ma fa chiarezza: il discepolo non vive la dimensione dell’impegno religioso in una modalità dissociata dall’impegno politico. Il cristiano che deve dare a Cesare quel che è di Cesare è lo stesso che in certe circostanze deve fare obiezione di coscienza, anche a rischio della vita, e alzarsi in piedi per opporsi con tutto se stesso a qualunque Cesare (cioè a qualunque potere politico), che pretenda di sostituirsi a Dio (ad esempio nel voler disporre della vita di una persona umana!). Ed è al tempo stesso il cristiano che deve opporsi pure a eventuali tentativi del potere religioso di assorbire in sé il potere politico (come fanno gli stati teocratici!).
Parafrasando le parole di Paolo ai Tessalonicesi (II lettura), l’autentico impegno politico dei cristiani diventa un modo per tradurre la fede in responsabilità pubblica, la carità in operosità dentro la società, la speranza in paziente attesa del compimento della storia.
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