Lo spunto:
A che ve serviralo tuti ‘sti argagni, se pò seo come ragni presoneri de na tela? A che cosa vi serviranno tutti questi marchingegni, se poi siete come ragni prigionieri di una tela? Una delle ultime frasi che ho sentito pronunciare da mio nonno, “el Ricardo Pipa”.
Cosa c’è che non va, mi chiedevo allora, e me lo chiedo ancora? All’apparenza tutto, poi, ripensandoci bene, niente! Forse è proprio dentro questo termine: «tutto» che dimora il niente. Sì, perché l’inizio sta proprio in quel tutto che nasconde l’insidia del niente… “Gnènt en tut, gnènt de gnènt, gnènt de pù, gnènt de nòo…” – Niente in tutto, niente di niente, niente di più, niente di nuovo… – Si potrebbe continuare all’infinito, fino allo sproloquio, ma forse, è doverosa una riflessione. Una amara riflessione! Sarà mica questo “tutto” che ci ha catapultati nel «sistema del niente»? Rammento sempre le parole di un vecchio; “el Bòzol”; che seduto sulla panca, posizionata ad occidente, nel rione “Mas da Prà”, nelle lunghe serate d’estate, soleva dire: “matèi, se se la passava mèio quan che no’ gh’èra gnènt… se èra pù siori alora, che ancòi, che no ne manca gnènt!” – “Ragazzi: si stava meglio quando non c’èra niente… si era più signori allora, che oggi, che non ci manca niente!” – Ma in quel fatidico «niente» dimora il tutto! Partire dal niente, per giungere a quella elevazione che è ben poca cosa, forse è soltanto il primo gradino di quella che viene chiamata evoluzione. Un solo gradino! In duemila anni di storia, possiamo affermare di aver fatto quel fatidico «balzo»?
Corrado Zanol (Capriana)
Forse aveva proprio ragione il Nonno con la sua pipa, non era solo il rimpianto dei vecchi tempi andati il suo. Perché è vero che la post-modernità globalizzata consente di avere tutto (almeno a chi ha i soldi per comperarselo) ma è anche vero che ci ha rubato ciò che più conta, i luoghi, lasciandoci con “niente in tutto”. I luoghi sono infatti essenziali per la vita, per farla crescere, maturare, per darle identità e libertà. I luoghi sono lì dove si nasce e si radicano le prime esperienze dell’imprinting, ma sono luoghi anche una stube cordiale dove ci si ritrova con gli amici, e può esserlo una panchina che, sotto un albero o addossata a un vecchio muro abbraccia un intero orizzonte. Un luogo: dove si provano emozioni, si ricevono suggestioni (e suggerimenti di vita) si intessono relazioni. Tutti noi, a ben vedere, abbiamo avuto prima o poi, una panchina come “luogo”: al parco dove ci portava la mamma a giocare, o magari con la morosa, oppure soli, nelle ore inquiete dell’adolescenza a leggere lunghe pagine di libri nella ricerca delle nostre attese e speranze. Per molte estati la mia panchina di riferimento fu invece quella accanto al portale della chiesetta di Gries, frazione ladina di Canazei, in val di Fassa, che era poi la panchina del pastore.
Il pastore s’annunciava fin dal primo mattino col suono del corno che richiamava i contadini ad aprirgli le stalle e attenderlo sulla soglia. Qui, passando di maso in maso, il pastore si faceva consegnare le capre che portava a pascolare sui prati alti di “Soracrepa”. Il corno tornava a farsi sentire nel pomeriggio, quando il capraio riportava nelle stalle il gregge comunitario, perché i contadini gli aprissero le porte e le capre avrebbero trovato da sole la strada. Quel suono lungo e intenso che scendeva sul paese insieme al vento delle cime sembrava una vera sinfonia pastorale. Riconsegnati gli animali che aveva custodito sui monti il capraio si sedeva su una panchina addossata alla chiesetta di Gries e accendeva una piccola pipa. Lì lo raggiungeva don Massimiliano Mazzel, studioso, letterato, promotore indiscusso dell’Union de Ladins (“Ladins tegnom adum, la forza vegn dal grum”, la forza viene dal gruppo, dallo stare uniti) che trascorreva l’estate nella vicina Pensione Marmolata. Sacerdote e pastore parlavano a lungo insieme, poi ognuno ritornava a casa per la cena, ma sembrava una sinfonia anche quel colloquio sulla panchina, dove in quei momenti passava la storia di una valle, di un popolo. Don Mazzel con i suoi studi e il pastore con il suo corno, quella era vera Ladinità. Ad esprimerla servivano i luoghi che ora la modernità ha rubato, trasformando i pascoli dolomitici in parcheggi (“non Luoghi” come bene ha espresso l’antropologo francese Marc Augé, recentemente scomparso), zone d’attesa amorfe, estranianti, dove non si intrecciano relazioni, ma solitudini. Augé scrisse che “il luogo” per eccellenza, perfetto, era il “bistrot”, che corrisponderebbe alla nostra osteria, o alla vecchia trattoria di paese, dove fermarsi a bere un bicchiere o mangiare un boccone, cordialmente, senza pretese, se non quelle di un calore umano nell’accoglienza e nel cibo. Ma ora non solo le stazioni, i centri commerciali, i villaggi turistici seriali sono diventati “non luoghi” globalizzati, ripetuti e ripetitivi in ogni parte del mondo, tanto che sta diventando noioso perfino viaggiare, ma anche le osterie e le trattorie stanno cambiando, perdendo il loro calore, cedendo a mobili plastificati minimalisti, che par quasi di entrare in una sala d’aspetto medica… mentre le panchine, bisogna pur ribadirlo, non sono semplici sedili in un parco. È vero, quindi, che non basta poter avere “tutto” per essere ricchi “dentro”, occorre poter recuperare i luoghi che ci sono stati rubati, occorre poter ricostruire relazioni, emozioni, conoscenze, sentimenti, fedi e avventure che solo i “luoghi” sanno trasmettere. Aveva ragione il Nonno. Una modernità senza “luoghi” crea solo una rete di prigionie.
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