“È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli”. Così i ragazzi di Barbiana e il loro maestro don Lorenzo in “Lettera a una professoressa”. È la lingua che fa eguali. Una massima da applicare all’esperienza altoatesina? I ragazzi di Barbiana amano leggere la Costituzione. “Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di… lingua”. “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli … che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti”.
Non c’è dubbio: quando la lingua diventa elemento di “distinzione” (nel senso di discriminazione, di ostacolo alla libertà e al pieno sviluppo della persona) è compito della Repubblica (dello Stato, delle regioni, della Provincia autonoma e così via) rimuovere questo ostacolo. Eccoci già al nocciolo della questione. Può un modello come (si è sviluppato) quello altoatesino, fondato sulla “distinzione” per lingua, avere la capacità di rimuovere gli ostacoli alla partecipazione causati proprio dal fattore “lingua”, senza che prima avvenga un radicale cambiamento se non sul piano istituzionale, almeno su quello culturale? In queste settimane in provincia di Bolzano si discute – anche con rabbia – di lingue, di scuola e di muri. Di come i ragazzi di un gruppo linguistico e i loro genitori possano entrare nella scuola dell’altro gruppo. Di quale lingua usare per comunicare, per capirsi. Niente di nuovo sotto il sole.
La scuola, in una terra di confine come l’Alto Adige, è da sempre campo di battaglia. Per la verità non “da sempre”, ma solo dall’epoca dei nazionalismi. Claus Gatterer a questo proposito, riferendosi ai decenni di fine ‘800 e inizio ‘900, parlò di “guerra delle scuole”. “Era una guerra – scrisse – in cui lavagne e gessetti servivano da armi, scuole e asili da fortezze e trincee, maestre e maestri si sentivano soldati in prima linea sul fronte delle nazionalità e come tali si battevano”. Perché, a oltre un secolo di distanza, ci troviamo ancora ridotti nella stessa trincea? I motivi sono molteplici e complessi. Ne citiamo almeno due. Il primo è legato proprio al “fattore lingua”. La lingua di per sé non sarebbe altro che uno strumento di comunicazione. È l’ideologia nazionalista a caricare la lingua di un valore identitario, distintivo, assoluto. La lingua diventa così elemento ideologico (come altrove la confessione religiosa).
Ci si aggrega attorno alla lingua e non ad altre cose. Una delle strategie più praticate per ottenere e mantenere il potere è, ovunque e in ogni tempo, quella del “divide et impera”. Ecco, la
lingua assolutizzata in chiave ideologica funziona benissimo per aggregare e separare. In un sistema come questo ogni tentativo di creare spazi significativi translinguistici è destinato a fallire. Perché mette in crisi il sistema. C’è un secondo motivo che impedisce un cambiamento virtuoso. Perché questa situazione, volendo, si potrebbe superare (ma anche peggiorare). Dipende essenzialmente dalle persone. Anche dalle istituzioni (la Repubblica), che però sono fatte pure esse di persone. Il tanto decantato modello altoatesino non è immune da criticità.
Fondato com’è sulla divisione linguistica, si è sviluppato nel senso del monopolio del potere da parte della classe dirigente di un gruppo linguistico, che al suo fianco tollera anche la presenza di esponenti degli altri gruppi linguistici, ma rigorosamente cooptati, e comunque non in posizioni dove abbiano una responsabilità (se non come vice) per tutta la popolazione, anziché solo per il proprio gruppo di riferimento. Un cambiamento (nel senso di una convivenza fra eguali) molto difficilmente potrà arrivare da questa politica. E al momento si fatica a scorgere all’orizzonte donne e uomini all’altezza della situazione. Certamente ci sono, ma non si vedono. Non si sente la loro voce, coperta com’è da un chiacchiericcio sterile, presuntuoso e saccente, a volte diffamatorio, dal bullismo intellettuale pronto a spegnere chi si discosta dal pensiero unico o fa una domanda.
Soprattutto manca, a differenza del passato, un’autorità morale, profetica, che possa fare da contrappeso alle dinamiche del potere, fecondando la società di valori e cultura. Restano l’economia, che a volte è più lungimirante della politica, ma ha le sue logiche, e la buona volontà di qualche singolo, finché le/gli si lascia respiro. Per il resto domina una politica di taglio provinciale, non quella dello statista, ma quella di chi ha come massimo orizzonte la data delle prossime elezioni.
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