Ma come mai quest’anno tante comunità – da Lavis a Sanzeno alla val di Fassa – si sono raccolte in una Via Crucis “pensata” e animata, carica di fiducia? Non si spiega questo rilancio della pratica popolare – in qualità più ancora che in quantità – soltanto con la prima Quaresima senza mascherine. O con un clima sociale incupito da bombardamenti e sbarchi senza sosta.
Non si sceglie di partecipare alla Via Crucis per assistere empaticamente ad un’agonia, nemmeno per crogiolarsi nel dolore degli innocenti o nell’angoscia del Getsemani. “Ma guarda quanto ha sofferto Gesù, allora voglio soffrire anch’io…”, non dovrebbe mai essere così. Rispetto a qualche esagerazione del passato, l’annuncio del Vangelo ci porta a respingere il rischio di un certo compiacimento nella sofferenza, quel “dolorismo” vittimistico che diventa invece quasi offesa per chi fra noi si trova a vivere davvero una condizione di dolore, vicina o lontana, fisica o interiore. Anche davanti alle letture del Triduo – cosi come la lettura a più voci del “Passio” che domenica scorsa ci ha ricapitolato la Settimana Santa – ci impegniamo a non fermarci alla commozione, a testa bassa, in ginocchio.
Alziamo gli occhi al cielo, perché il racconto di questi tre giorni che hanno cambiato la storia dell’umanità non vuole farci contemplare il dolore, ma l’amore . L’amore del Figlio di Dio che non fa per finta, si dona veramente, va a morire così come ha vissuto, pregando per il vicino, perdonando i lontani. Questo è il nostro Signore, che allora ha parlato attraverso la pietra rotolata e l’annuncio affrettato delle donne e dei discepoli. E che oggi ci parla attraverso segni non straordinari ma altrettanto eloquenti, a saperli cercare. Può essere la voce di un giovane di casa nostra, non battezzato, che a 22 anni si è lasciato affascinare dal racconto di un amico e dalla lettura di qualche buon libro di spiritualità cristiana. Ha provato a percorrere un cammino di catecumenato e via via ha scoperto Chi può dare senso alla vita: sabato sarà battezzato.
E non è forse un segno quel papà pakistano – anche di lui parliamo in questo numero – che è stato fedele al Cristo finché la persecuzione nel suo Paese non lo ha costretto a scappare. Arrivato in un paese trentino che lo ha accolto nella canonica senza parroco, è il primo testimone della “gioia del Vangelo”. Infine Gemma Calabresi che gira l’Italia per dire che il dono della fede è la vita stessa, che il perdono è un cammino possibile, come ha ripetuto a Trento una settimana fa. Al termine di questa Quaresima dalla “ritrovata” Via Crucis, possiamo forse ripeterci che meditare la Passione è “cosa buona e giusta”: è riconoscerci discepoli, risentire la carezza del Padre misericordioso sulle nostre fragilità e le nostre piccolezze. Un atto di fiducia ben riposto, come la luce che si sprigiona dal sepolcro. Ci aiuta a vincere il buio delle nostre stazioni dolorose e alimenta le fiaccole della fiducia e della testimonianza del Risorto.
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