La missione come cura delle ferite sanguinanti dell’umanità e ricerca di chi è smarrito
Jambo wandugu wapenzi! Habari gani? Buongiorno carissimi fratelli e sorelle, come state?
Oggi fa un gran caldo ma c’è una brezza leggera che sposta le tendine della veranda dove sono seduta e mi dà un po’ di sollievo. Penso a ciascuno di voi che tra qualche giorno mi leggerete e vi apro il cuore in quest’ora pomeridiana, sulla compassione, sulla tenerezza.
Discreta, attiva, di poche parole, la compassione regge il mondo. E’ la cucitura nascosta che lo tiene unito e gli impedisce di scomporsi in mille pezzi. Essa abita uomini e donne, giovani, vecchi e bambini, ogni latitudine e non si lega in modo esclusivo a una fede. E’ un seme di luce e di bellezza che lo Spirito di Dio semina ogni giorno sulle strade del mondo, nelle case della gente e perfino là dove la violenza sembra regnare. Questa compassione ha preso volto in Gesù di Nazaret, il pastore buono. Ha incarnato nella sua vita questa immagine rendendola eloquente con il suo agire e parlare, con il suo vivere in mezzo al popolo d’Israele, con il suo passare nel mondo facendo il bene e narrando così la bontà di Dio.
Egli ha accolto chiunque gli si è fatto vicino, siano questi i suoi discepoli che erano già in una relazione più intima con lui, oppure siano le folle che lo cercavano in modo sempre più pressante, insistente.
Ha saputo discernere il bisogno concreto delle persone: la stanchezza dei corpi e dei cuori di coloro che ha chiamato ad annunciare l’evangelo; la fame di parole e di pane di coloro che vagavano senza guide che dessero senso al cammino.
Ha risposto a questo bisogno prendendosene carico: ha preso con sé i discepoli, ha trattenuto le folle, ha dato agli uni e agli altri tempo ed energie, cioè la sostanza della vita.
La compassione è il dono che Dio ci ha fatto, è l’acqua che ci dà vita, l’aria che ci fa respirare, il mantello di luce che ci avvolge ogni mattina. Essa ci abbraccia come siamo, con il nostro peccato e le nostre mille debolezze, con la nostra umanità. Ci spinge fuori da noi stessi per divenire luoghi dove possa ancora accadere e continuare ad essere fattiva la passione di Dio per il mondo. Ci manda sulle strade a condividerla.
Due medici, Xavier e Daniel lavorano al pronto soccorso di un campo profughi. Accolgono l’arrivo di un camion carico di persone ferite da colpi di mortaio. Il compito più urgente è di valutare il più in fretta possibile chi è curabile e chi no. In modo tecnico, professionale, senza troppi coinvolgimenti emozionali: e questo proprio per il bene di chi ha ancora qualche possibilità di sopravvivere.
Di fronte a una giovane donna sventrata da un colpo di mortaio, la diagnosi dei due medici è immediata e identica: non c’è nulla da fare. Ma mentre Xavier passa ad un altro ferito, Daniel improvvisamente salta dentro al camion, si pone dietro la donna ferita, la avvolge protettivo con le sue braccia lasciando che il viso di lei, traversato da sudori freddi, si appoggi sul suo petto, e comincia a parlarle delicatamente e a carezzarle i capelli. Morirà tra le braccia di uno sconosciuto, liberata non certo dalla morte né dai dolori, ma da quella paura che accompagna così spesso il morente: il terrore di morire solo, abbandonato. “Accompagnando la solitudine dell’essere vivente fino all’estremo limite in cui è possibile tenergli compagnia, Daniel ha abolito la solitudine di questa donna morente e, nello stesso tempo, ora lo so con certezza, la solitudine umana universale, per un istante” scriverà più tardi Xavier.
“Va’ e anche tu fa’ lo stesso” E… alla prossima, Mungu akipenda!
(4. continua)
Delia Guadagnini
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