Di nuovo il Brasile in primo piano. L’assalto dei sostenitori dell’ormai ex-presidente Jair Bolsonaro al Congresso, al palazzo presidenziale e alla Corte Suprema per contestare l’elezione del redivivo Luiz Inàcio Lula da Silva ci ha riportato ad un analogo episodio all’inizio del 2021 a Capitol Hill, Washington.
Anche in quel caso si cercava di delegittimare il risultato elettorale favorevole a Joe Biden in competizione con l’ex presidente Donald Trump. Ma con due differenze.
La prima è che la violenta contestazione contro Lula avviene ad una settimana di distanza dal suo giuramento a nuovo presidente del Brasile, mentre l’assalto al Congresso americano si svolse prima che i rappresentanti parlamentari certificassero la vittoria di Joe Biden. Insomma, si trattava allora di una pressione da parte dei sostenitori di Trump a riesaminare per l’ennesima volta i risultati elettorali prima del verdetto finale. Invece oggi siamo di fronte alla pretesa dei “bolsonaristi” di rovesciare il nuovo presidente: molto più simile questa volta ad un vero e proprio colpo di stato. Non per niente i manifestanti a Brasilia si erano accampati, come in tante altre città, accanto alla base dell’esercito di quel paese nella speranza di ottenere l’appoggio dei militari nel cacciare Lula. Per fortuna ciò non è fino ad oggi avvenuto.
Qui si palesa la seconda differenza. Gli Usa, malgrado le apparenze dell’assalto a Capitol Hill, sono da quasi 250 anni una solida democrazia, mentre in Brasile l’ultimo golpe militare, in ordine di tempo, risale al 1964. Una democrazia sicuramente fragile e resa ancora più precaria da vari fattori contingenti: un calo notevole del Pil dovuto anche agli effetti devastanti della pandemia (irragionevolmente negata da Bolsonaro); una conseguente crescita delle diseguaglianze economico/sociali e della povertà assoluta; la constatazione, in periodi di difficoltà, dell’inadeguatezza e inefficienza degli organismi burocratici; la polarizzazione politica, spesso sfociata in conflitti violenti, e il crescente populismo dei leader politici. Oggi, come appare evidente dagli episodi di Brasilia (ma anche in altre parti del paese), il Brasile è un paese profondamente diviso e con minori risorse economico/finanziarie per porre rimedio ai guasti provocati dai cinque anni dell’ex-presidente Bolsonaro, oggi esule volontario a Miami a due passi dalla residenza del suo “modello” Donald Trump.
I fatti di Brasilia ci portano poi ad altre due considerazioni. Innanzitutto, la vittoria di Lula, rappresentante storico della sinistra sudamericana, sembra dare sostanza alla cosiddetta “marea rossa” che negli ultimi tempi ha potuto contare sull’elezione al governo di nuovi leader riformisti, dal Cile alla Colombia. Ma che questa “marea” sia soggetta a riflussi è apparso subito evidente da recenti tentativi di golpe di destra in Perù e dalle montanti proteste in Bolivia e in altri paesi di quel continente. Neppure possiamo dimenticarci della continua sopravvivenza, malgrado passati tentativi di democratizzazione, di regimi chiaramente autoritari in Venezuela, Cuba, Nicaragua e El Salvador. Non è quindi detto che Lula finisca per uscire rafforzato da questa prova di forza e che riesca a consolidare la democrazia brasiliana di fronte ai grandi ostacoli che dovrà superare.
La seconda considerazione è che i fatti del Brasile rappresentano un ulteriore campanello d’allarme sullo stato della democrazia nel mondo, oggi più che mai alle prese con le insidie portate dal populismo e dall’autoritarismo. Basti dare un’occhiata alle analisi condotte dall’Intelligence Unit dell’Economist che denuncia nel 2022 il punto più basso dei sistemi democratici internazionali. Quelle che il giornale inglese definisce “democrazie piene” sono solo 21 nell’intero pianeta. In esse sono rispettate le libertà civili, vi è un perfetto equilibrio fra le istituzioni, funzionano correttamente gli organismi burocratici e si può contare sulla varietà e libertà dei media. Tanto per intenderci l’Italia non ne fa parte, entra cioè nella categoria delle “democrazie imperfette”. Ma a staccare tutti sono oggi i regimi autoritari e dittatoriali che hanno raggiunto in pochi anni il consistente numero di 59, pari al 37,1% della popolazione mondiale priva di autentiche libertà.
Il malessere della democrazia, mai così alto dalla fine della guerra fredda, lo vediamo purtroppo manifestarsi nella cronaca di tutti i giorni. Basti guardare alle difficoltà di eleggere lo speaker della Camera negli Usa, dove sono state necessarie 15 votazioni per sbloccare la paralisi, un fatto che non si manifestava da oltre 100 anni (di solito la nomina avveniva alla prima votazione). Colpa dell’estremizzazione e polarizzazione della lotta fra “trumpiani” e moderati all’interno dello stesso partito repubblicano, dove le regole di convivenza sono saltate. Oppure si rimane stupefatti di fronte alle storie di corruzione all’interno della massima istituzione democratica dell’UE, il Parlamento europeo, trasformato in una centrale per lobbisti internazionali. Per non parlare poi del vulnus che paesi come l’Ungheria e la Polonia arrecano ai valori democratici dell’UE, danni che non si riescono a rimediare. Così oggi ci ritroviamo con una guerra nel cuore dell’Europa, scatenata da un cinico dittatore, e con un’opinione pubblica europea sempre più tentata dai facili populismi di una destra estrema che sembra non risparmiare nessuno, dall’Europa all’America Latina. Per questa ragione la “resistenza” democratica del Brasile acquista valenza globale e va sostenuta con grande convinzione e forza.
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