Annus horribilis questo 2022 che sta per chiudersi. Una definizione che dal 2001, anno dell’attacco terroristico alle due torri, si può applicare ad altre annate in questo primo ventennio del nuovo millennio, a cominciare dalla grave crisi finanziaria globale del 2008 fino al 2020, quando l’umanità intera si è trovata ad affrontare una delle più gravi pandemie della storia recente.
Eppure, questo secolo d’avvio del terzo millennio aveva ereditato le speranze degli anni ’90 del ventesimo secolo. La dissoluzione senza spargimento di sangue dell’Unione Sovietica, la fine della guerra fredda, il ritorno alla democrazia in numerosi paesi dell’Est Europa e dei Balcani, la convinzione che il liberalismo si potesse diffondere al mondo intero. In altre parole, come ebbe ad affermare il politologo americano Francis Fukuyama, si era entrati trionfalmente nella “fine della storia”, per significare che ormai la direzione del mondo era tracciata per gli anni a venire. Punto condiviso anche dagli studiosi francesi che avevano chiamato quel decennio la “Belle Epoque” per l’Europa e, forse, per il mondo.
Profezie ben presto clamorosamente smentite. Fino alla situazione odierna che nelle parole di papa Francesco assomiglia drammaticamente alla “terza guerra mondiale a pezzi”. È infatti dal 24 febbraio, giorno dell’invasione russa dell’Ucraina, che una guerra assurda e crudele si è sviluppata nel cuore dell’Europa e che non dà segni di volere cessare malgrado la ripetuta invocazione di Francesco: “fermatevi!”.
Basterebbe ciò per definire quindi come “orribile” l’anno che sta per finire. In realtà, questo clima da incubo è poi aggravato da numerosi altri episodi di crisi nel Mediterraneo e nel Medio Oriente con una ripresa massiccia dell’immigrazione clandestina non solo verso l’Italia, ma anche attraverso la vecchia rotta balcanica, che sembrava da qualche anno esente dalle correnti di disperati alla ricerca di terre sicure. Libia fuori controllo e perfino Tunisia, oggi molto più simile ad una dittatura che alla tanto vantata democrazia, sono paesi di transito e origine di nuove migrazioni. Ma è facile anche prevedere che i lunghi mesi di proteste in Iran contro la teocrazia inflessibile e omicida degli Ayatollah contribuirà a fomentare nuove instabilità in una regione sempre sull’orlo di nuovi conflitti, dalla Siria allo Yemen, dall’Iraq all’Afghanistan.
In questo ampio arco di sommovimenti politici e guerreschi, che dall’Ucraina si estendono fino al Golfo Persico e all’Africa, ci sarebbe più che mai bisogno di un ritorno alla filosofia che dopo la Seconda guerra mondiale ha dato vita alle Nazioni Unite: la risoluzione pacifica dei conflitti in un contesto che rappresenti il mondo intero e che all’uso della forza aiuti ad anteporre quello della diplomazia e della mediazione.
La guerra della Russia contro l’Ucraina ha invece messo in luce la debolezza e addirittura l’impotenza di questa grande istituzione multilaterale. A parte le condanne contro l’aggressione di Mosca da parte dell’Assemblea dell’Onu, che hanno più che altro un significato simbolico, nessuna vera azione di contenimento del conflitto è stata possibile a causa del veto russo nel Consiglio di Sicurezza. Ormai lo sappiamo da tempo, ma l’antistorico potere di veto all’interno del Consiglio per sole cinque potenze mondiali è il vero ostacolo all’operatività dell’Onu e la sua condanna all’irrilevanza politico-istituzionale.
Il fallimento del multilateralismo globale poteva essere attenuato in qualche modo dalla crescita delle integrazioni regionali, fossero esse il Mercosur per l’America Latina, l’Unione africana per quel continente, l’Asean per il sud est asiatico e, naturalmente, la sua massima espressione in Europa rappresentata dall’UE. Ed in effetti la terribile esperienza di Covid-19 aveva costituito per la nostra Unione un potente incentivo per approfondire l’integrazione europea.
Il grande piano di rilancio economico del Next Generation EU, accompagnato dalla storica decisione di permettere alla Commissione di Bruxelles di indebitarsi sul mercato finanziario internazionale, aveva dato la sensazione che l’UE fosse destinata a contare sempre di più. Difatti la reazione unitaria dei 27 di fronte all’invasione delle truppe di Vladimir Putin nel territorio dell’Ucraina aveva sorpreso sia lo zar del Cremlino che gli stessi europei e i loro alleati americani. Ma con il passare dei mesi questa unità ha cominciato a mostrare segnali di cedimento, con l’Ungheria di Viktor Orbàn dichiaratamente pronta ad accordare fiducia a Mosca e la Germania e l’Olanda decise per mesi a negare il tetto al prezzo del gas russo fino al Consiglio del 19 dicembre in cui finalmente l’accordo è stato raggiunto, ma solo a maggioranza qualificata con il voto contrario dell’Ungheria e l’astensione di Olanda e, a sorpresa, di Austria.
A rendere ancora più precario il quadro della coesione europea è infine arrivato il torbido affare del Qatargate, che ha colpito al cuore la credibilità del Parlamento Europeo unico organismo elettivo e democratico dell’UE.
Un anno orribile, quindi, foriero di un ulteriore indebolimento dei processi di integrazione regionale, tanto importanti per cercare di equilibrare all’interno di ciascun continente i rapporti fra i singoli paesi.
Siamo ancora in tempo, noi europei, nel cercare di modificare la direzione del potente vento di ciechi nazionalismi che albergano in Europa. Una direzione che può e deve essere solo quella di un ulteriore balzo in avanti verso l’integrazione politica dell’UE. L’alternativa, come ci ha ben dimostrato il 2022, consiste solo nel prevalere antistorico dei nazionalismi e dei conflitti fra i popoli.
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