È ormai da alcuni anni che addobbi e luminarie di evidente marchio natalizio compaiono con un certo anticipo sull’Avvento, tant’è vero che mi chiedo (ma è domanda retorica) se non abbiamo per caso barattato il nostro rito romano con quello ambrosiano: è risaputo infatti che a Milano l’Avvento inizia qualche settimana prima che da noi.
No, in realtà i riti non c’entrano, o c’entrano molto poco. Tutto è addebitabile al fascino che il Natale ha assunto col tempo e che nemmeno la secolarizzazione dell’epoca post-moderna è riuscita ad eclissare. Lo si è semplicemente lasciato traboccare aldilà dell’alveo religioso, a motivare ambiti e settori d’ogni genere, quello economico o del mercato in particolare. Il fatto che poi tutto quest’apparato scompaia al finire delle cosiddette “Feste” favorisce anche tra cristiani l’idea che l’Avvento abbia quale unico obiettivo quello di preparare il Natale, passato il quale è finito tutto e si torna al “come prima”.
Ora, non c’è dubbio che il Natale vada preparato non in quanto “ricordo” di un fatto accaduto in un lontano passato (e perciò dal sapore d’antiquariato, se pure piacevole), ma bensì quale evento che – avendo Dio stesso a protagonista – non cessa mai d’esserci contemporaneo; e non è affatto mia intenzione sminuirne l’importanza. Oso semplicemente dire (e non ho mai smesso di farlo, per la verità) che un tale motivo, per quanto apprezzabile, è decisamente parziale. Ciò può far si che i credenti, destatisi a Natale dal consueto torpore, a Santo Stefano tornino tranquillamente a sonnecchiare. Occorre davvero predisporsi con quattro settimane d’anticipo a una tale esperienza? Ma a cos’altro dovrebbe servire allora l’Avvento?
Lo si sa: venuta è il significato di questo termine ormai ben noto. Venuta di Dio con volto umano a Betlemme circa 2000 anni fa, e altra sua venuta (o ritorno) alla fine del mondo per tirare le somme della storia. Tra le due, nel frattempo (di cui nessuno è in grado di specificare la durata) si può starsene tranquilli: non è proprio questo il modo abituale di pensare? E di cos’altro ci si dovrebbe preoccupare?
Certo, non è un Avvento all’insegna della normalità questo che abbiamo iniziato. Personalmente mi ha scosso la breve comunicazione giuntami da parte d’un prete amico che opera nel Maramures (regione della Romania al confine con l’Ucraina): “Qui continuano ad arrivare profughi, la temperatura è già sotto lo zero e si comincia a morire di freddo…”. Da noi le situazioni non sono probabilmente altrettanto drammatiche, ma non mancano avvisaglie e dati già reali a preoccupare chi ha la sana abitudine di guardare aldilà dei propri interessi.
Quest’anno, in occasione dell’Avvento, si è ricorsi al simbolo dell’Anfora di comunità: dovrebbe raccogliere segnalazioni di povertà, di difficoltà, di sofferenza, oltre a riflessioni e proposte… Che c’entra tutto questo, ed altro ancora, con l’Avvento?
Che esso sia all’insegna della normalità oppure dello straordinario, una cosa è certa: se accolto e vissuto come si deve, il suo primo obiettivo è di risvegliare in chi crede la consapevolezza che Dio è per sua stessa rivelazione “Colui che viene” (Apocalisse 1,4). Sempre. Lo si ripete con solennità in queste Domeniche: “Ora egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella Fede e testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo Regno”.
Lo dobbiamo ammettere: è un dato della Fede, questo, che non ci è molto familiare; e di conseguenza anche l’attenzione a riconoscere “Colui che viene” lascia alquanto a desiderare, a scapito d’un credere che rischia di ridursi a religiosità puramente occasionale.
Oh, non solo alle situazioni problematiche va collegata la presenza del “Signore che viene”. Il suo stile, per così dire, non smentisce quella sorprendente semplicità che lo caratterizzava nell’annunciare il Vangelo nei villaggi della sua Galilea. Papa Francesco, con la sua inesauribile freschezza e assodata spiritualità, l’ha ricordato all’Angelus della prima Domenica d’Avvento:
«Non viene in modo eclatante Dio. È nascosto nelle situazioni più comuni e ordinarie della nostra vita e viene nelle giornate che appaiono grigie e monotone: proprio lì c’è il Signore, che ci chiama, ci parla e ispira le nostre azioni. Ma per riconoscere la sua Venuta e accoglierlo si deve essere vigilanti, non distratti o “tirare a campare”».
Certo, a volte riconoscerlo può far scattare un impegno che disturba, ma cosa augurarci al riguardo? Che quelle “Anfore di Comunità” si rivelino alla fine troppo piccole, perché è a dir poco consolante poter pensare che in questo mondo di oggi, sovraccarico di complessità e di problemi, non siamo abbandonati a noi stessi. C’è anche lui, infatti, con noi: il Dio che è, che era e che viene.
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