“A santa Caterina, patrona dei carradori”

Domenica scorsa a Roncamartèl, sull’erta salita che dalla piana di Pergine conduce alla Faida di Piné, si è ripetuto un rito secolare

Roncamartèl, fine novembre – La cappella è antica. Anche troppo, viste le cattive condizioni del manufatto. Secondo il francescano Salvatore Piatti, che ne scrisse in un volume (“Due chiese sorelle”, 1989), la cappella di S. Caterina dovrebbe risalire alla metà del XIV secolo. È menzionata nel 1414 e già allora, con i proventi dei devoti si compravano vacche che erano date in affitto perpetuo a contadini della bassa val dei Mocheni e del Perginese. A “roncadóri” tedeschi, per la maggior parte, i quali, secondo il frate francescano, erano stati i promotori della fabbrica di quel minuscolo santuario, sull’erta salita (“el salesà lonch”) che dalla piana di Pergine conduceva alla Faida di Piné.

La località era chiamata Roncamartèl, ma al principio del XIX secolo, nella valletta pianeggiante di metà percorso, fu avviata un’osteria. Accanto c’era il molino “del Bertoldi”. Quel luogo fu chiamato “Al riposo” poiché tiravano il fiato gli uomini e gli animali che tornavano verso l’altipiano di Piné.

“Santa Caterina è la nossa patrona, la patrona dei carradori”, disse convinto Marcello Franceschi, da Montagnaga. Don Marco Berti, parroco di Nogaré, Vigalzano, Madrano e decano di Pergine, stava dicendo messa sotto il portico della cappella.

Era l’unica messa annuale che si celebrava in quello che fu “il santuario della gastaldia di Madrano” (P. Piatti). Fino al 1750 il manufatto era lungo pressappoco il doppio dell’attuale. Quelli del Bus, che ne avevano la custodia, domandarono al vescovo di Feltre (aveva giurisdizione fino al rio Farinella) il consenso a demolire metà della cappella poiché i travi della copertura era marciti e l’interno pareva troppo grande per celebrarvi due sole messe all’anno: il 25 novembre (S. Caterina) e il 28 giugno (S. Pietro). Nonostante la demolizione parziale e qualche restauro, il “pessimo stato” (1828) fu una costante. Tuttavia, aveva una bella pala d’altare attribuita a Elia Naurizio (1581-1657). Quarant’anni fa fu tolta all’ingordigia dei ladri d’arte sacra e trasferita al museo del Buonconsiglio, a Trento. Sull’altare fu collocata una copia fotografica, anche perché, nel frattempo, si era interrotta perfino la tradizionale messa di fine novembre.

Una trentina di anni fa, Marcello Franceschi e Carlo Tommasini ripresero a organizzare la festa della patrona, la domenica che seguiva il 25 novembre. “Ricordo che alcuni anni sen vegnudi fòra la matina bonóra mi e el Carlo a far la rota parché gh’era en metro de nef”.

Giancarlo Bernardi, forestale, ricordò il proverbio pinetàno: “Da santa Caterina l’èi bianca e molesina”.

Non nel 2016, poiché il pomeriggio di domenica 27 novembre fu pieno di sole, accompagnato da una temperatura quasi primaverile.

A Montagnaga, Marcello Franceschi teneva carrozza e cavallo per “scarrozzare” verso l’altare coppie di sposi. Quando il quadrupede tirò le cuoia, un paio di anni fa, lo sostituì con un trattore. Ma Santa Caterina restò patrona, comunque. Anche per i pinàitri che coltivano le vigne sui ripidi pendii lungo la costa fra Canzolino, Madrano e Nogaré.

Nel 2016 non si è fatto il vino.

Roberto Joriatti, 63 anni, dalla Faida, ricordò che tutte le vigne avevano subìto tre grandinate: il 25 giugno, il 5 luglio e, la più devastante, il 17 agosto, l’indomani di San Rocco. S’è salvato soltanto qualche grappolo d’uva attorno ai bàiti (i “canevéti”) perché riparata dalle grondaie. Non si è potuto fare neanche un litro di vino bianco, il “Balàsi”, un uvaggio di Valdelmar, Feltriner e Müller, appositamente imbottigliato dalla cantina di Cembra. Gli altri anni si producevano almeno duemila litri. Il 2016 fu un disastro. “An bisèst, an senèst (o an funèst)” che vuol dire: anno bisestile, anno sinistro (o anno funesto), sentenziò Giancarlo Bernardi.

Ad ogni buon conto, conclusa la messa della patrona, Roberto Joriatti tirò fuori da sotto la giacca una bottiglia di “Balàsi” del 2014. Poco più in là, il maestro Domenico Puecher, da Roveda, era intento a rifocillare con castagne e vin brulè i 62 partecipanti al rito della patrona, compresi sei dei trenta Schützen della compagnia di Piné-Sover, in uniforme da sfilata. Alcune signore avevano portato torte e biscotti.

Emilia Zanèi, 90 anni, arrivata fin qui dalla Guarda di Piné, levò in alto il bicchiere. “Alla patrona – disse con piglio da sessantenne – che l’è la nossa protettrice”.

Ricordò che quando era in seconda elementare (anni Trenta), scendendo verso la cappella di Roncamartèl fu punta dalle spine di un prugno selvatico e fu costretta a letto per un mese. Da S. Caterina, i ragazzi della Guarda restavano a casa da scuola. Di solito c’era la neve, spesso coperta da una coltre di ghiaccio.

Ma era un altro secolo. La ruota del tempo si è inceppata. Quella di Santa Caterina, che figurava sul paliotto della cappella, si è perduta.

Tuttavia, resiste ancora quale patrona dei carrettieri e, per traslato, di chi guida un mezzo con le ruote.

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