Ci si aspettava non una luna di miele per il nuovo governo (impossibile per un cambio di equilibri politici piuttosto radicale), ma almeno una fase in cui si puntasse alla stabilizzazione del nuovo scenario. In effetti questa era sembrata la linea che voleva seguire Giorgia Meloni, di suo già gratificata dall’essere la prima donna al vertice di un esecutivo e il perno di una svolta politica.
La linea però è stata messa in pratica a metà, forse anche un po’ meno. In politica economica e in politica estera la premier si è astenuta dalle sceneggiate ed ha piuttosto lavorato per affermare la sua affidabilità e di conseguenza quella del nostro paese. È qualcosa che andrebbe apprezzato anche dalle opposizioni, perché, come si usa dire, riguarda la tenuta della barca su cui navighiamo tutti. Certo ci sono anche rese alla realpolitik come nel caso del suo incontro con il premier egiziano Al Sisi, ma vanno inquadrate nella impossibilità ormai di trovare una soluzione al terribile caso di Giulio Regeni: impossibilità che fuori dai palcoscenici riconoscevano anche personaggi autorevoli dell’attuale opposizione. In questo caso si è scelto di riaprire un canale, in verità mai del tutto interrotto, con un potere, certo molto poco gradevole, che conta in Africa e che controlla una quota possibile dell’approvvigionamento di gas grazie alla scoperta (italiana) di nuovi giacimenti nelle sue aree. Poco piacevole, ma è così.
Il problema è il prezzo che Meloni deve pagare per poter fare una politica di stabilizzazione conservatrice riguardo a quei due grandi ambiti: lasciare spazio al teatrino delle bandierine. Si capisce che la concorrenza di Salvini sia una spina nel fianco e che la presenza di FI, guidata ostinatamente da un Berlusconi al tramonto, non serva ad equilibrarla. Tuttavia lasciar spazio alle pulsioni per sbandierare un cambio di clima è un gioco pericoloso. La stessa premier cede a questi istinti quando si mette a discettare su un paese che non sarebbe più una repubblica delle banane: pur con dei limiti non lo è mai stato, mentre quei limiti che lo facevano apparire tale rimangono perché sono iscritti nel nostro sistema strutturale per modificare il quale ci vorrà molto più che un cambio di colore politico ai vertici dello stato.
I problemi sono notevoli e nel nostro piccolo li abbiamo già elencati più volte. Per esempio non risolve nulla estendere la tassa piatta del 15% alle partite IVA fino a raggiungere la soglia degli 85 mila euro: compra forse un po’ di voto corporativo, ma non incide sulla necessità di riordino di un sistema fiscale che è una giungla in cui ci si perde e che avvantaggia molto i furbi, mentre pesa sui cittadini che non lo sono (magari semplicemente perché non sono in condizioni di esserlo).
Lo stesso dicasi per il furore iconoclasta sul reddito di cittadinanza. È uno strumento di intervento mal congegnato e mal gestito, ma non si può dimenticare che è figlio dell’ideologismo grillino incapace di tradurre principi astratti in politiche concrete. Metterci mano annunciando ogni giorno interventi drastici che puntualmente il giorno dopo vengono ridimensionati perché si rivelano ingestibili non serve se non ad aumentare la confusione.
Altrettanto dicasi per le politiche sull’ordine pubblico e sui migranti. Anche qui molta ideologia d’accatto (non solo da destra, ma anche da sinistra) e scarsa attenzione ad elaborare interventi che affrontino davvero i nodi di problemi che sono veramente complessi: quello del degrado del rispetto delle leggi che deriva dall’allargamento di un deficit culturale verso le regole di convivenza e dallo spaesamento di quote di popolazione che non trovano prospettive di inserimento; quello dell’immigrazione, perché siamo davanti ad un fenomeno epocale di migrazioni di massa che non è affrontabile né con un astratto riferimento a leggi sul salvataggio in mare che non sono state elaborate avendo in mente questa fattispecie, né invocando sovranismi impossibili di questi tempi.
Va però detto che le opposizioni sono più che deboli nel fare dialettica su questi e su altri temi, perché sono concentrate a sgomitare per mantenere i loro spazi sul gran palcoscenico della politica spettacolo. Basta guardare alla questione delle elezioni regionali in Lombardia e in Lazio per rendersene conto. Nel primo caso il PD si inalbera per l’ipotesi di appoggiare Letizia Moratti che abbandona il centrodestra seguendo quelli che ritengono impossibile per principio allearsi con una che è stata con Berlusconi (quasi fosse Hitler…): meglio perdere da soli, gli suggeriscono i censori dai loro giornali. Nel secondo caso rimane prigioniero delle faide del PD romano e dei suoi capetti che sognano solo l’alleanza con Conte, nonostante egli lavori pertinacemente per emarginare quel partito.
Davvero in queste condizioni non sarà facile affrontare quel che ci aspetta.
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