Chissà se il nuovo governo – nel quale convivono l’eredità del nazionalismo (post)fascista e quella del leghismo federalista-secessionista – avrà da occuparsi di minoranze linguistiche. Tutti hanno già messo le mani in avanti.
Ma lo sviluppo e la protezione delle minoranze (linguistiche o meno) equivale necessariamente a uno scontro, a una dialettica Stato-Regioni o, nel caso altoatesino, Stato-Provincia autonoma?
Perché di per sé la tutela delle minoranze linguistiche, prima che una rivendicazione particolare, è un principio generale, anzi fondamentale della Repubblica. Articolo 6 della Costituzione italiana: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Punto.
Si può discutere se questo principio sia più o meno attuato, se sia attuato per tutti o solo per alcuni, ma resta certo che si tratta di un principio fondamentale, ovvero di uno di quegli elementi che appartengono all’identità di fondo della Repubblica e delle sue istituzioni.
L’articolo, rispetto al quale ci fu un vivace confronto, fu introdotto nell’Assemblea costituente da Tristano Codignola (giornalista, editore, giurista, azionista e poi socialista) di per sé scettico verso un certo modo di trattare le autonomie speciali. Rispondendo nel dibattito al filomonarchico Vincenzo Selvaggi, disse: “Scusi, onorevole Selvaggi, ma la protezione delle minoranze linguistiche, secondo lei, in uno Stato moderno, deve essere soltanto attuata perché viene imposta da uno Stato estero? O non anche perché è essa un elemento fondamentale di ogni moderna Costituzione?”. Era il pomeriggio del 1° luglio del 1947.
In questo modo Codignola tagliava la testa al toro a ogni discussione rispetto alla necessità di un “ancoraggio internazionale” delle autonomie. Anche là dove esso c’è – da pochi mesi era stato firmato a Parigi l’accordo Degasperi-Gruber – l’ancoraggio però non è di per sé necessario, perché la tutela delle minoranze linguistiche è “un elemento fondamentale di ogni moderna Costituzione”.
La Corte costituzionale è intervenuta in più occasioni a spiegare il senso dell’articolo 6. Il principio in esso enunciato (leggiamo nella sentenza n. 15 del 1996) “rappresenta un superamento delle concezioni dello Stato nazionale chiuso dell’Ottocento e un rovesciamento di grande portata politica e culturale rispetto all’atteggiamento nazionalistico manifestato dal fascismo, è stato numerose volte valorizzato dalla giurisprudenza di questa Corte, anche perché esso si situa al punto di incontro con altri principi, talora definiti ‘supremi’, che qualificano indefettibilmente e necessariamente l’ordinamento vigente: il principio pluralistico riconosciuto dall’articolo 2 – essendo la lingua un elemento di identità individuale e collettiva di importanza basilare – e il principio di eguaglianza riconosciuto dall’articolo 3 della Costituzione, il quale, nel primo comma, stabilisce la pari dignità sociale e l’eguaglianza di fronte alla legge di tutti i cittadini, senza distinzione di lingua e, nel secondo comma, prescrive l’adozione di norme che valgano anche positivamente per rimuovere le situazioni di fatto da cui possano derivare conseguenze discriminatorie”.
Nel 2010 (sentenza n. 170), la Corte affermò che “in definitiva, la norma di cui all’articolo 6 della Costituzione finisce per rappresentare … una sorta di ulteriore tratto fisionomico della dimensione costituzionale repubblicana e non già soltanto un indice della relativa forma di governo. E la previsione della tutela appare direttamente destinata, più che alla salvaguardia delle lingue minoritarie in quanto oggetti della memoria, alla consapevole custodia e valorizzazione di patrimoni di sensibilità collettiva vivi e vitali nell’esperienza dei parlanti, per quanto riuniti solo in comunità diffuse e numericamente ‘minori’”.
La Costituzione, dunque, non considera le minoranze un oggetto da museo o da “riserva indiana”, ma un patrimonio vitale di tutti, al di là dei numeri e delle dinamiche internazionali. Non serve allora dividere il mondo tra amici e nemici delle autonomie. Piuttosto tra amici e nemici della Costituzione, della res publica (ovvero del Bene comune) e dei suoi principi, che se non sono ancora universalmente riconosciuti, saranno universalmente da riconoscere.
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