La Cina tra nazionalismo e controllo invasivo

Numeri sempre grandi in Cina. Ben 2296 delegati partecipano al Congresso Nazionale del Popolo in corso questa settimana a Pechino. Dai suoi lavori e dalle elezioni nascerà il nuovo Comitato Centrale composto da 370 membri. Il passo successivo è la nomina del Comitato Politico o Politburo di 25 persone. Da esso scaturiranno i nomi dei sette membri del Comitato Permanente, l’organo supremo di questi passaggi a matrioska. Ma quello che realmente conta è il grande capo di questo Comitato di vertice e di tutto il resto: Xi Jinping che domenica sarà rieletto Presidente cinese per il terzo quinquennio successivo, dopo che lui stesso nel 2018 aveva ben pensato di togliere il limite dei due mandati.

Ma il ruolo di Presidente è forse il meno importante, dato che serve a rapportarsi con il resto del mondo sul piano diplomatico e delle relazioni con gli altri capi di stato nazionali. Il vero potere è infatti nelle altre due cariche che Xi ingloba sotto quella di presidente. È infatti Capo della Missione Militare Centrale e cioè del sempre più potente esercito cinese e degli apparati di polizia. Ed infine Segretario Generale del Partito Comunista Cinese, vera macchina di gestione del paese, ove il partito coincide con lo stato. Insomma, una vera e propria dittatura, non dissimile da quella a noi ben più nota dell’Unione Sovietica di staliniana memoria. Uguali sono infatti i riti e le modalità di questo lungo processo (dura un’intera settimana) di nomine, tutte decise dall’alto senza possibilità di modifiche in corso.

Anche la scenografia è la stessa dei regimi comunisti a cominciare dagli applausi dei congressisti, rigorosamente ritmati e a comando: nulla che assomigli a qualcosa di spontaneo. Non è certo una novità, ma rivedere queste immagini fa sempre una sgradevole impressione. Sul piano più generale per Xi i prossimi cinque anni non si prospettano una semplice passeggiata. I successi indubbi del passato difficilmente si ripeteranno. Fra il resto, già all’inizio dell’ultimo quinquennio si sono manifestati i primi segnali di un progressivo indebolimento economico della Cina, che poi si è accelerato con lo scoppio della pandemia, nata proprio in quel paese.

Oggi il quadro internazionale è ancora più preoccupante, sia per lo scoppio della guerra in Europa, sia per i segnali di recessione globale che dall’occidente sono inevitabilmente destinati a colpire al cuore la Cina, il cui successo economico è soprattutto legato all’esportazione.
La sfida per Xi sarà quindi quella di riuscire a salvaguardare la pace sociale all’interno del suo immenso paese. Fino ad oggi egli ha mantenuto la promessa di un costante aumento dei redditi personali e la possibilità di offrire crescenti occasioni di impiego alla massa di giovani che si affacciano al mondo del lavoro.

Mantenere questo consenso non sarà facile. Già la sua politica di “Zero Covid”, con l’improvvisa chiusura di interi quartieri se non di città, ha creato non poche reazioni popolari, contenute con l’uso massiccio di esercito e polizia. Reazioni che nascono, oltreché dalla severità di misure di lockdown, dalla constatazione della gente di vedere il resto del mondo muoversi esattamente nella direzione opposta con la graduale riapertura di tutte le attività. Lo stesso può capitare in futuro sul piano della crescita economica se “il sogno cinese”, lavoro e redditi alti, dovesse in qualche modo affievolirsi. È probabilmente questa problematica che spinge Xi in due direzioni. La prima è quella di indurire il regime comunista, sia attraverso un controllo sempre più invasivo di internet (un Great Firewall a sembianza della Grande Muraglia) e delle poche manifestazioni di dissenso che dovessero presentarsi, sia retrocedendo sul piano delle libertà economiche, riportando sotto il controllo dello stato numerose aziende private nate ai tempi del grande boom economico. La seconda direzione, come spesso accade nei regimi autocratici in difficoltà, è quella di risvegliare nel paese il senso nazionalistico e patriottico, da lui spesso evocato nel suo lungo discorso al Congresso. Di qui l’insistenza di volere riportare entro il 2049, data del centesimo anniversario della grande marcia di Mao, la “provincia” cinese di Taiwan sotto il dominio di Pechino. Con le buone o con le cattive. Ovverosia con l’accettazione da parte di Taiwan della formula “un Paese, due sistemi” adottata nel caso di Hong Kong. Peccato che l’esempio non sia proprio calzante, dal momento che dopo alcuni anni Xi ha deciso di riprendere il controllo totale su Hong Kong, affossando il suo regime democratico. In caso contrario Xi ha anche dichiarato apertamente di essere pronto ad usare la forza militare per portare l’isola a più miti consigli. La conseguenza sarebbe quella di incendiare l’intera area, dal Giappone fino alle Filippine, quella che gli americani chiamano la “prima linea (anticinese) delle isole”. Una crisi ben più grave di quella cui assistiamo in Ucraina e nella quale gli Stati Uniti non si limiterebbero probabilmente solo a fornire armi.

C’è quindi da sperare che questi temi “nazionalisti” si limitino al loro significato interno, di mantenere alto il consenso popolare intorno al grande capo Xi Jinping.

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