“Essendo io innamorato di Boccaccio, e Boccaccio innamorato di Dante, non potevo non innamorarmi dell’idea di un film su Dante”. Pupi Avati spiega così, per interposto poeta, il suo ultimo film, coronamento di un progetto coltivato per lunghi anni e traversie, preceduto dal libro “L’alta fantasia” e finalmente prodotto dalla Rai, sogno avatiano che ha dovuto superare la pandemia e dunque è arrivato nelle sale quest’autunno, un anno dopo il 700° anniversario della morte del Poeta.
Giunto alla saggezza che l’età riserva ai patriarchi, il regista che eccelle nella narrazione degli innamoramenti periferici e delle storie di provincia si è dunque cimentato con l’autore della Divina Commedia e con le sfere dell’amore celeste che irradia il mondo.
“Tra la perduta gente” (che è anche il titolo di un bel romanzo dantesco di Enzo Fontana), tra la gente perduta si era incamminato e un po’ perso ma mai sperduto Dante nel suo viaggio, scortato da Virgilio, a rivivere gli amori e gli odi della sua vita complicata e tormentata, di cui peraltro si sa ben poco, oltre a ciò che ne ha scritto l’autore del Decamerone nel suo Trattatello in laude.
Forse per questo Avati ha scelto di non affrontarla di petto, la biografia di Dante, ma di evocarla attraverso i flashback suscitati da un viaggio di Boccaccio verso Ravenna, trent’anni dopo la morte del Sommo, con il risarcimento che Firenze volle destinare alla figlia dell’esule, monaca nella città romagnola.
Con il volto di Castellitto, il grande Boccaccio esplora dunque le tracce dell’ancora più Grande, che si rivede giovane, incarnato dal fervore sincero di Alessandro Sperduti (cognome non casuale?). C’è il Dante che trasalisce e versa lacrime d’amore alla vista di Beatrice, c’è il Dante che la piange perduta, quello che va in battaglia e quello nudo e tremebondo nel talamo nuziale, quello che soddisfa i bisogni corporali e quello che entra in politica. Non c’è Dante che studia, che progetta e scrive il Poema.
Dei suoi versi, risuona la Vita Nova, mentre la Commedia è appena evocata, da un’allusione a Paolo e Francesca, dalle parole scritte su un lenzuolo, dalla ricordata sapienza per i nomi delle stelle. Quasi che Pupi il bolognese, maestro delle commedie umane e credente cercatore, non osasse penetrare il potente macchinario teologico, filosofico, letterario e spirituale della Commedia Divina del grande fiorentino.
La storia, girata in larga parte in esterni umbri, è percorsa da incubi, giacigli e volti di morte: un’antica ossessione familiare del regista, che mette in scena anche l’ultimo cameo del suo amico Gianni Cavina. Avati azzarda perfino una Beatrice che divora un cuore sanguinante, per poi commuoversi tra volti intensi e sprazzi di felice poesia (il gioco delle sorelle di Beatrice, la loro danza, il loro lutto) in cui si riconosce la mano delicata di chi ha girato tante storie affettuose di ragazze e ragazzi: e nell’amore di Dante ragazzo per una donna ancora fanciulla, trova la chiave per spiegare come poi abbia osato, l’Alto Ingegno, e saputo narrare i fuochi cupi dell’inferno e le luci aeree e amorose del cielo.
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