Quando la ricchezza rende ciechi

Domenica XXVI del tempo ordinario C. Illustrazione © Fabio Vettori

25 settembre 2022 – Domenica XXVI del tempo ordinario C

Am 6,1.4 7; 1Tm 6,11 16; Lc 16,19 31

«Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti». Lc 16,31

 

Le letture di questa Domenica vanno lette in continuità con quelle della scorsa settimana. Presentano una serie di situazioni che ci aiutano a capire quanto sia difficile ma al tempo stesso anche quanto sia necessario usare le ricchezze in una prospettiva evangelica di condivisione.

Amos, nell’VIII sec. A.C., rimprovera gli spensierati di Samaria. I ricchi stanno raggiungendo l’apice del loro consumismo (case lussuose, mense opulente, feste spensierate, ossessiva cura del corpo) e non si interessano della rovina del loro paese, sembrano anzi rimuoverla accuratamente perché narcotizzati dal loro fragile benessere. Nel vangelo, la prima parte della parabola ci presenta qualcosa di analogo. Il ricco (senza volto e senza nome), vive spensierato con due sole preoccupazioni: il mangiare e il vestire. Del mendicante che giace alla sua porta non se ne accorge nemmeno; perfino i cani si manifestano più umani del loro padrone! Unica risorsa del mendicante è Dio stesso, lo scopriamo dal nome: Lazzaro significa infatti Dio aiuta. Una prima conclusione che vien da tirare è questa: la ricchezza rende facilmente ciechi ai bisogni degli altri, rischia di farci diventare meno sensibili dei cani!

La seconda parte della parabola presenta il capovolgimento delle situazioni: il mendicante Lazzaro aveva trovato chiuse le porte del banchetto terreno e trova aperte quelle del banchetto celeste, il ricco aveva chiuso in terra le porte del proprio banchetto al povero Lazzaro affamato e si trova nell’impossibilità di accedere al banchetto del cielo. Questa parte della parabola ribadisce l’insegnamento delle beatitudini: «Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame» (Lc 6,21.24.25). Inferno e paradiso, nella logica della parabola non sono un premio e una punizione ma l’estrema conseguenza di una vita concentrata sulla fiducia nelle ricchezze oppure in Dio. Se l’inferno «è la sofferenza di non essere più capaci di amare» (F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov in “I capolavori”, Garzanti, 1293/2949), il paradiso diventa un’esperienza di amore e di comunione a misura divina.

L’ultima parte della parabola mette in scena i fratelli del ricco, che continuano a vivere nell’opulenza, ignorando i poveri e ignorando la Parola di Dio. Non serve a niente avvisarli tramite private e clamorose apparizioni, i loro occhi sono ormai ciechi, i loro orecchi sordi, il loro cuore indurito. La ricchezza, se non viene condivisa, non spinge ad odiare il povero e a rifiutare la Parola di Dio. La ricchezza fa di peggio: spinge ad ignorare entrambi. Per non chiudere la porta alla speranza possiamo fare nostra la preghiera introduttiva alle letture di questa domenica XXVI del Tempo Ordinario anno C: «O Dio, che conosci le necessità del povero e non abbandoni il debole nella solitudine, libera dalla schiavitù dell’egoismo coloro che sono sordi alla voce di chi invoca aiuto, e dona a tutti noi una fede salda nel Cristo risorto». 

Ricordiamo infine ciò a cui dobbiamo tendere e che ci viene richiamato dall’apostolo Paolo. Dopo aver messo in guardia il giovane collaboratore Timoteo dall’avidità del denaro, Paolo soggiunge: «tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni» (1 Tm 6,11-12).

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