Tra i segni di una “cultura della morte” che emerge nelle ultime settimane, Muser denuncia la “distinzione tra noi e gli altri, tra i locali e i forestieri”, che “fomenta paure e costruisce steccati di confine”
Bolzano – La Pasqua dà senso a tutta l’esperienza cristiana, ma non c’è Pasqua se non legata alla vita concreta. Questo, in sintesi, il messaggio espresso dal vescovo di Bolzano-Bressanone Ivo Muser nell’omelia del pontificale di domenica scorsa in Duomo a Bolzano. Senza la fede pasquale la comunità cristiana non avrebbe ragion d’essere, vescovi e sacerdoti farebbero meglio a lasciare il proprio incarico e tutti insieme si potrebbe dichiarare fallimento. E tuttavia, ricorda il vescovo, “la Pasqua non è una fuga trionfale dalla realtà della nostra vita”. “Il risorto continua a portare le ferite della sua sofferenza. La resurrezione e la croce, la croce e la resurrezione, sono insieme il grande mistero della fede cristiana”.
“La Pasqua non ci toglie l’esperienza della croce e della tomba, ma ci libera dalla rassegnazione del ‘tutto inutile’ e del ‘tutto per niente’. Dio è il Dio dei viventi e non dei morti”. “Le lacrime, la tristezza, la violenza, l’ingiustizia, la croce e la tomba, non hanno più l’ultima parola dopo l’esperienza della Pasqua”. “È per questo che quando i cristiani parlano della loro fede, parlano sempre della Pasqua. Si parla di Pasqua quando essi si impegnano in attività concrete, quando agiscono da cristiani nella sfera politica, economica, nella scuola, in tutti gli ambiti della vita sociale e pubblica. Parliamo di Pasqua, quando i cristiani si impegnano per la difesa dei valori del Vangelo nella vita di coppia, nella famiglia, nella convivenza tra i gruppi linguistici, e anche nella convivenza con le nuove culture ed etnie, che giungono nella nostra terra. Si parla di Pasqua quando i cristiani non rinunciano a porgere la mano in segno di perdono e di misericordia”. “Si parla di Pasqua quando i cristiani non rinunciano a credere al bene, quando danno il buon esempio, poiché la vita ha un valore imprescindibile, anche a costo del sacrificio, del rifiuto e dell’essere messi da parte. Si parla di Pasqua quando i cristiani provano a dare un senso alla malattia e anche quando davanti alla tomba di una persona cara non lasciano cadere la speranza. La fede pasquale invita noi cristiani ad opporci ad ogni cultura della morte, a un sempre più dilagante senso di impotenza verso un futuro incerto, a una cultura che fomenta l’angoscia per il futuro e il destino del mondo, a una cultura che pretende di avere a disposizione la chiave della vita”.
Il vescovo elenca chiaramente i segni di una “cultura della morte” che vede anche in qualche presa di posizione e reazione delle ultime settimane: si dice che “devono tornare gli steccati di confini… Gli interessi nazionali, che speravamo di aver superato, tornano di grande attualità e vengono legittimati. La distinzione tra noi e gli altri, tra i locali e i forestieri, non di rado fomenta paure e costruisce steccati di confine nelle nostre teste e nei nostri cuori. Il problema principale che ci preoccupa sono i tempi di attesa al confine, che possono danneggiare il libero commercio e il turismo. Dietro a molti pensieri, parole, timori e proposte si mostra spesso la paura di dover condividere o rinunciare ad uno stile di vita che per certi versi non è più sostenibile”.
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