Se rientra nella routine che ciascun partito interpreti i risultati elettorali da una sua ottica strumentale, questa volta ci sono ampi margini perché tutti possano farlo con qualche fondamento. Il quadro infatti è molto mosso e per tanti versi ambiguo.
Non ha tutti i torti Berlusconi ad attribuire le sconfitte della sua parte ad un astensionismo che si è ampliato più verso destra che verso sinistra, ma dovrebbe ammettere che ne è causa un populismo che dalle sue parti ha allontanato molti elettori che non amano certa politica muscolare (e una certa propensione della destra al potere a gestirlo sostenendo spudoratamente la distribuzione di risorse agli amici). Dove questi fenomeni sono stati marginali o comunque contenuti e si è fatta buona politica i risultati non sono mancati: vedi Genova.
Così ha le sue ragioni Letta quando indica il modello Verona come emblematico, a patto che riconosca che a vincere non è un personaggio della nomenklatura di partito, ma uno che parla alla gente un linguaggio poco consono al politichese. Trasferire questo modello a livello nazionale dovendo gestire il famoso “campo largo” sarà un’impresa.
Quando corri in una situazione che sembrava disperata come Verona non è difficile tenere a bada gli appetiti di apparato. Quando si tratterà di spartirsi collegi più o meno sicuri sarà un altro paio di maniche.
I problemi a livello nazionale rimangono tutti in campo. Il centro destra è ancora preso dalla competizione Salvini-Meloni e quella getta ombre sulla gestione non solo delle elezioni nazionali, ma anche di quelle regionali. La Lega vuole una riconferma dei suoi amministratori, a cominciare da Fontana in Lombardia. FdI ha bisogno di segnare il territorio, a partire da Musumeci in Sicilia. FI deve anch’essa avere degli spazi riconoscibili. Mettere tutto insieme aggiungendoci anche il diverso atteggiamento verso il governo (opposizione abbastanza responsabile Meloni; sostegno piuttosto irresponsabile Salvini) non è una equazione con poche incognite.
Del resto il centro sinistra non è messo molto meglio. Il PD di Letta è la formazione vincente, per quanto al suo interno non sia particolarmente compatto, ma la sua coalizione non è messa bene. I Cinque Stelle sono mine vaganti, non solo per la scissione di Di Maio, ma soprattutto per l’inconsistenza politica di Conte. Gli altri sono piccoli partiti in cerca di affermazione e fanno fatica ad uscire dalle loro visioni particolari. E poi c’è il tema del “civismo” che si sta rilevando una risorsa chiave, ma che in astratto vuol dire ben poco, perché è poi questione del caso per caso, in alcuni con personalità di rilievo in grado di aggregare, in altri con soggetti che cercano solo di sfruttare per sé l’onda favorevole della pubblica opinione verso i “non-politici”
In queste condizioni la stagione che si apre è più che problematica. Certo al centro rimane il ruolo di Draghi, che guadagna spazi a livello internazionale, ma che a livello dei partiti italiani continua ad essere guardato con qualche sospetto. In definitiva non si è deciso né come fare a tenerlo dopo il varo della nuova legislatura, né come metterlo da parte senza creare problemi di stabilità a livello internazionale.
Naturalmente moltissimo dipenderà dall’evoluzione della crisi ucraina, che però temiamo non sia sulla via di risolversi, anzi che piuttosto sembra complicarsi non poco, perché non si sa fino a che punto si potrà tollerare l’aggressività russa che non si trattiene dal portare la guerra verso fasi sempre più cruente.
I riflessi di questa evoluzione li vedremo giorno dopo giorno e si sommeranno ad altre problematiche strutturali che non sono affatto risolte. Anzi, nonostante le rassicurazioni sull’impegno di tutti per far andare avanti l’esperienza di questo governo, c’è da aspettarsi che i riflessi di quanto i partiti ritengono di aver capito dall’andamento delle amministrative si facciano sentire sulla campagna per le elezioni della primavera 2023, campagna che è già iniziata.
Ammesso e non concesso che si arrivi alla scadenza naturale della legislatura.
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