Azzeccato il titolo del 17° Festival dell’economia di Trento, “Dopo la pandemia: tra ordine e disordine”. In effetti il disordine globale era già evidente dopo i due anni del Covid-19. Figuriamoci oggi nel pieno di una guerra nel cuore dell’Europa scatenata dalle folli ambizioni di Vladimir Putin. In realtà con l’affievolirsi della “peste” del 21° secolo era sembrato che le cose si rimettessero gradualmente al loro posto.
La crescita impetuosa dell’economia mondiale nell’ultimo semestre dell’anno scorso aveva dato la sensazione che il peggio fosse ormai alle nostre spalle. Anche se, a dire il vero, a livello internazionale i segni degli scricchiolii del sistema multilaterale erano piuttosto evidenti, vista l’impotenza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di imporre regole di comportamento comuni agli stati nazionali nel combattere la pandemia. Unica eccezione era stata l’Unione Europea che con un soprassalto di volontà dei suoi stati membri era riuscita a varare una politica centralizzata di acquisto dei vaccini per tutti e aveva addirittura adottato il Next Generation EU, il grande piano di sostegno dell’economia europea. La guerra in Ucraina ha invece accelerato in modo clamoroso il caos e il disordine internazionale.
Ben presto un evento europeo si è trasformato in un problema di rilevanza mondiale. Non solo perché ha diviso il mondo a metà fra sostenitori della Russia e partigiani dell’Ucraina. Non solo perché la guerra è tornata a dominare le nostre menti e preoccupazioni. Ma soprattutto perché ha confermato la debolezza delle istituzioni multilaterali e dei loro incerti meccanismi. Le Nazioni Unite sono quasi completamente scomparse dal quadro politico mondiale. Le loro assurde e vetuste regole interne, che attribuiscono a sole 5 potenze, fra cui la Russia, il diritto di veto sulle decisioni del Consiglio di sicurezza, hanno finito per marginalizzarla del tutto.
Proprio per un compito, quello di regolare ed evitare i conflitti, per il quale era stata creata. Eppure, come abbiamo detto, le conseguenze della guerra contro l’Ucraina colpiscono un po’ tutti. Crisi energetica, aumento dei prezzi del cibo, inflazione, povertà diffusa si sono aggiunte alle difficoltà provocate a suo tempo dalla pandemia e dai sempre più evidenti cambiamenti climatici che fanno saltare previsioni e programmi economici. Proprio sul cibo in questi giorni, anche a livello di Consiglio europeo, si è affrontata la cosiddetta “guerra del grano”, un conflitto ibrido scatenato dalla Russia attraverso il blocco delle esportazioni navali ucraine nel Mar Nero. Normalmente l’Ucraina, che assieme alla Russia, è il massimo esportatore mondiale di grano e semi di girasole (oltre a fertilizzanti) faceva partire da Odessa, il suo grande porto del sud, circa 5 milioni di tonnellate al mese di grano e 700 mila di semi di girasole.
Oggi nulla, o quasi, si muove da quel porto assediato a distanza dalla flotta militare russa. Ben 22 milioni di tonnellate giacciono inutilizzate nei silos ancora risparmiati dai missili russi. Le conseguenze come è ovvio non ricadono solo sulle mancate entrate finanziarie di Kyiv, che i russi temono siano utilizzate per comperare altri armamenti, ma su tantissimi paesi che dipendono quasi esclusivamente da quelle importazioni. In particolare si tratta di paesi del Medio Oriente, dalla Siria al Libano, e del Nord Africa, dalla Libia alla Tunisia passando per il cruciale Egitto. Secondo i calcoli della Nazioni Unite almeno 50 milioni di persone in più soffriranno la fame nei prossimi mesi. Di fronte a queste preoccupanti cifre, una prima riflessione riguarda gli effetti perversi della globalizzazione economica.
Oggi infatti non si parla di scarsità di grano (ve ne è in abbondanza), ma di monopolio in poche aree di un prodotto indispensabile per una moltitudine di persone nel mondo. Come con la pandemia ci si era accorti che la produzione delle mascherine o dei vaccini si concentrava solo in due o tre paesi, così oggi si comprende come la dipendenza da un cibo basilare sia l’effetto di un progressivo trasferimento delle produzioni in alcuni territori. Discorso che potrebbe andare bene in un mondo regolato da norme condivise di divisione del lavoro, ma che non funziona più in un mondo multipolare basato sul concetto di potenza. Abbandonare certe produzioni è stata una decisione più dettata da considerazioni di vantaggio economico che da preoccupazioni geopolitiche. Così oggi rischiamo non solo un’enorme carestia nei paesi più poveri, ma anche effetti potenzialmente dirompenti sulla stessa Unione europea. è infatti facile prevedere la ripresa di enormi flussi di disperati sulle nostre coste e allo stesso tempo il rischio di destabilizzazione nei paesi più fragili del Medio Oriente e dell’Africa. Il tutto grazie all’arma del ricatto sul grano utilizzata con l’ormai noto cinismo dallo zar del Cremlino. Di qui la necessità per l’UE di non chiudere le strade del dialogo con Mosca, ma anche e ancora di più di mantenere una forte unità ricordando che la Russia dipende fortemente dall’export verso di noi, vera arma di pressione da utilizzare nei suoi confronti. Purtroppo l’unità dell’UE è in gran parte apparente, come vediamo in questi giorni. Prepariamoci quindi a vivere altri tempi bui in un mondo sempre più in disordine.
Lascia una recensione