Toh! Il Governo è in secca sulle concessioni balneari e rischia. L’autonomia trentina, invece, ha affrontato un problema del tutto simile, per risvolti giuridici ed economici, già dodici anni fa, con le concessioni delle cave di porfido. All’epoca, pur con strappi, anche avvilenti, e dopo vari ritocchi alla legge provinciale (L.P. 7/2006), l’apertura al mercato dell’estrazione di questa pregiata pietra locale venne definitivamente sancita da una circolare del 26 febbraio 2010.
Un’apertura molto lenta (il grosso delle aste è infatti previsto nei prossimi anni) e stiracchiata dai Comuni concedenti, che però pose la parola «fine» a un’aspra contesa, sfociata anche in reclami a Bruxelles e nell’apertura da parte della Commissione UE di due procedure d’infrazione a carico della legge provinciale; procedure ora chiuse e sepolte.
Dunque la vittoria della concorrenza sul protezionismo è da noi già incisa – è proprio il caso di dirlo – sulla pietra. Le autonomie speciali, quando si mettono di buzzo buono, si destreggiano anche in temi spinosi, mentre lo Stato, che oggi avrebbe ben altro da pensare, si trova ancora a discutere di chi potrà piazzare lettini e ombrelloni in spiaggia.
C’è molta sconfortante italianità in questa vicenda, che non va però banalizzata. Chiudere una concessione può infatti favorire l’ingresso di nuovi imprenditori e migliori servizi; ma può anche provocarne lo scadimento, il blocco degli investimenti e incognite per l’occupazione: c’è insomma una serie di fattori da bilanciare in funzione dell’interesse collettivo.
Come ha fatto la nostra Provincia, con il porfido, ad attuare questo bilanciamento? Ha cercato, da un lato, di evitare i rischi suddetti, dando continuità alle concessioni in essere per un ragionevole numero di anni; dall’altro, ne ha subordinato il rinnovo al sistema delle aste, per favorire, grazie alla concorrenza, attività estrattive più razionali sia in termini ambientali che di sicurezza. La citata circolare del 2010, con la firma dell’allora assessore Olivi, suggeriva ai Comuni di allineare la durata massima delle concessioni esistenti non più all’esaurimento del lotto, cioè all’infinito, ma alla scadenza del «programma di attuazione comunale», cioè diciotto anni – tenendo conto dei ritmi di scavo – accorciandola però fino a 14 anni in presenza, nell’ultimo quinquennio, di scarsi investimenti aziendali (cioè inferiori a un dato ammontare o non riferiti alla sicurezza del lavoro, alla protezione dell’ambiente o all’attivazione della seconda lavorazione) o di discontinuità occupazionale. Quindi un sistema di penalizzazioni della durata residua delle concessioni in essere, comunque lunga (da 14 a 18 anni) ma distribuita in un ventaglio di scadenze, in modo da favorire la effettiva, graduale apertura al mercato del settore.
Il problema venne dunque risolto con ampia tolleranza temporale e senza bagni di sangue, ottenendo anche l’archiviazione delle procedure d’infrazione europee.
Per il settore fu comunque una svolta, tutt’altro che facile, e forse tardiva (mai quanto quella delle spiagge). Tuttavia quel segmento di storia dell’autonomia legislativa provinciale assume oggi un valore simbolico, per la sua attualità, rispetto alle riforme nazionali in cantiere, e per la tensione verso l’adeguamento della nostra economia a standard normativi europei. Del resto, senza apertura a nuove energie imprenditoriali, eliminando le barriere all’entrata, questo e altri settori non hanno futuro.
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