Alta politica e bassa cucina elettorale

Lega e Cinque Stelle, o meglio Salvini e Conte, fanno mostra di occuparsi di alta politica discettando su come l’Italia potrebbe diventare chiave nella gestione della crisi ucraina (la classica missione impossibile), ma in realtà lavorano nell’ottica dei rispettivi posizionamenti elettorali.

Così il leader leghista e quello pentastellato sproloquiano sull’invio di armi a Kiev, mentre hanno in mente il primo la tutela dei privilegi dei titolari delle concessioni balneari, il secondo la bandierina del no al termovalorizzatore (impropriamente etichettato “inceneritore”) dei rifiuti a Roma. Per mostrare il loro potere hanno fatto slittare lunedì l’approvazione del decreto “Aiuti” che conteneva le norme sui poteri speciali del sindaco Gualtieri come una prova muscolare della loro capacità di interdizione.

Calcoli meschini in una situazione internazionale sempre più grave. Non c’è solo l’affermarsi di una polarizzazione nelle relazioni internazionali che rende problematico non diciamo il neutralismo (come dimostra la vicenda di Finlandia e Svezia), ma la stessa articolazione di posizioni che si pongano fuori delle tensioni in corso. Quando tutto diventa una scelta fra stare qui o là, chi non è solidale colle fatiche di una delle due parti si espone a dover affrontare da solo i tempi che si fanno sempre più problematici. A questo si aggiunge la situazione interna all’Unione Europea con la sfida aperta che Orban ha lanciato contro il modello di società occidentale.

Il leader ungherese ne fa una caricatura che arriva a sposare la tesi assurda del progetto di “sostituzione” delle popolazioni europee e cristiane (lo sono ancora?) con ondate di immigrati che porterebbero al dominio di altre etnie. Un corso accelerato di storia non farebbe male a chi sostiene queste fantasie, perché le grandi migrazioni sono fenomeni non nuovi nella vicenda del mondo e piuttosto che a sostituzioni hanno portato in genere, salvo qualche eccezione, ad integrazioni che hanno consentito la nascita di nuove civiltà. Ma naturalmente per Orban quella è una trovata demagogica che gli serve solo per riaffermare la sua tesi di una “democrazia illiberale”, cioè di una autocrazia senza libertà politica, ovvero il suo sistema di potere.

Quanto riuscirà la UE a tollerare ancora che al suo interno ci sia chi, foraggiato dai suoi soldi e dalle sue opportunità, lavora a distruggere il suo universo storico di riferimento? Che dentro questo non stiano proprio tutte le cosiddette libertà e i cosiddetti diritti che sono considerati essenziali da un’interpretazione ultra individualistica del sistema occidentale è sostenibile. Che questo comporti un abbandono del quadro concettuale entro cui si colloca la democrazia liberale è tutt’altra questione.

Ora in un contesto di questa complessità continuare nell’opera di indebolimento del governo Draghi appare come una scelta a dir poco miope.

A parole tutti i partiti affermano che il governo Draghi deve durare fino alla conclusione naturale della legislatura, ma per buona parte non si danno pena di garantirgli quella vita decorosa assolutamente necessaria per muoversi nelle acque agitate in cui deve navigare. Certo il prestigio personale e la competenza del premier gli garantiscono una posizione che è in grado di neutralizzare le fibrillazioni della sua rissosa maggioranza, ma vale entro certi limiti.

L’impegno a realizzare le riforme previste dal PNRR non è una questioncella di secondo piano. Una parte della classe politica considera che nelle tensioni attuali la UE non si sentirà di essere più di tanto severa nel valutare nostri ritardi e scarti. Può essere che nell’immediato accada anche questo per la necessità di non creare ulteriori spaccature, ma dubitiamo che questo possa diventare stabile soprattutto se la situazione finanziaria della UE dovesse complicarsi per gli interventi resi necessari dalla guerra e da quanto verrà dopo (speriamo presto).

Draghi non è nelle condizioni di porre degli aut aut ai componenti più riottosi della sua maggioranza, perché tutte le componenti ragionevoli del sistema gli chiedono di rimanere al timone per senso di responsabilità. Ma è una corda che si logora e che se non viene riparata finirà per spezzarsi.

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