A Riva del Garda la testimonianza di mons. Rault, pastore in Algeria: ““Non aspettiamoci la reciprocità”
“Per ogni scarabeo, suo figlio è come una gazzella”, dice un proverbio africano e anche per padre Claude Rault, missionario dei Padri Bianchi, la diocesi di Laghouat è la più bella del mondo. “sabbia e mussulmani”, come disse scherzando un giorno Giovanni Paolo II, perchè si distende su milioni e mezzo di chilometri quadrati e fra i tre milioni di abitanti musulmani i cattolici sono poche centinaia. Un piccolo greggge, con il quale e dentro il quale, padre Claude vive la sua missione nello spirito dei monaci di Thibirine (il priore De Chergè era suo grande amico) come ha raccontato venerdì scorso a Riva del Garda, su invito dei Missionari Verbiti nella “sala del dialogo' alla vigilia della Giornata Missionaria mondiale.
Padre Claude, considera una benedizione oppure una sorta di punizione, l'essere finito in una minoranza così dispersa in un luogo dimenticato dagli uomini?
“Ma no, è stata la grande benedizione della mia vita. Sono arrivato nel Sahara per la prima volta nel 1970, quando il Paese aveva raggiunto l'indipendenza. Ho visto il passaggio dalla Chiesa “che è in Algeria”, alla Chiesa d'Algeria nel senso che ormai è strettamente legata alla popolazione algerina e porta con sé un messaggio evangelico specifico. La Chiesa non è stata protagonista di quella storia, ma vi ha apportato il suo contributo; si è incarnata. Noi cerchiamo di camminare sull'esempio di Gesù: anch'egli non ha fatto la storia ma vi si è inserito e le ha dato un senso”
Il dialogo con l'Islam è diventato la sua passione, nel senso di amore e di sofferenza. Lei ha dovuto anche assistere a episodi di violenza…
Le uccisioni degli innocenti sono azioni intollerabili anche per la coscienza musulmana più profonda. In questi anni noi siamo stati testimoni di una diffusione di un islam plurale, vario nelle espressioni.
Quali sono i passaggi per un “dialogo nella fede” con l'islam che – come insegna l'esperienza del “Legame di pace” avviato proprio a Thibirine – passa dalla condivisione delle esperienze.
E' importante la conoscenza reciproca, per noi della tradizione coranica, sapendo che anche loro hanno studiato la nostra tradizione. Evitiamo atteggiamenti di pregiudizio o anche di propaganda. E' importante restare quello che noi siamo, fedeli alla sequela di Gesù. La missione della Chiesa è essenzialmente andare incontro agli uomini del nostro tempo e mostrare loro che siamo tutti fratelli e sorelle in umanità, follemente amati da Dio.
Nel dialogo con l’islam s’invoca spesso la reciprocità, e pari riconoscimento delle colpe storiche.
Non ho mai applicato la reciprocità per fare del bene. Per noi è importante stare con Gesù e fare il bene. Senza aspettarsi che ci sia reciprocità. Grazie a Dio e a questa popolazione la reciprocità esiste. I mussulmani presso cui viviamo ci fanno del bene.
Cosa ha pensato alla morte del suo amico frere Christian a Thibirine e degli altri “uomini di Dio”?
E’ stato uno choc terribile. Eppure, non ho mai disgiunto la morte di questi monaci come degli altri 19 cristiani dalla sorte delle altre 150 mila vittime algerine mussulmane morte negli stessi anni. Nel caso dei monaci di Thibirine più che pensare a come sono morti, dobbiamo pensare come hanno vissuto e perchè hanno vissuto così. Hanno molto da insegnarci.
Cosa consiglia ai mussulmani che vivono in Italia?
E' importante che crescano come buoni cittadini, così possono dare un apporto significativo alla società, rispettando le regole del Paese in cui sono accolti.
Nella sua sua diocesi, il deserto fa anche da barriera per i migranti che cercano fortuna verso il Mediterraneo.
Gli emigrati non sono un problema, ma principalmente delle persone. Noi facciamo del meglio per accoglierli, soprattutto quelli feriti e malati. Li accogliamo nei nostri luoghi di preghiera e diamo loro conforto, cercando di fare la pastorale del buon samaritano.
In che percentuale si sente ancora francese? E algerino?
Non sto da una una parte o dall'altra ma mi sento figlio di ques'umanità plurale.
Il suo fresco libro, pubblicato da EMI, s’intitola “Il deserto è la mia cattedrale”. Cosa è il deserto per lei?
E' un luogo in cui possiamo sperimentare la grandezza e la bontà di Dio nel nostro cuore. Il deserto è anche espressione di una grande solitudine e della nostra finitezza. Mi sento un piccolo granello in questa grande immensità. In questa grandezza lasciamo che Dio abiti la nostra solitudine.
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