”Per carità, niente panegirici, mi raccomando!”. Si congeda così, don Gianfranco Corradi, al termine della lunga chiacchierata nella redazione di Vita Trentina, 90 anni compiuti il 21 aprile scorso, alla quale si concede volentieri, per ripercorrere le tappe di una vita segnata, fin dall’inizio, dalla testimonianza e dal servizio ai giovani. A cominciare da Bressanone, dove venne mandato (“In prestito, senza premio d’ingaggio!“) a dare una mano all’oratorio e dove rimase quattro anni. Poi a Rovereto, cappellano alla Parrocchia di San Marco e nella scuola, insegnante ai Geometri e ai Ragionieri, e quindi alla nuova Parrocchia della Sacra Famiglia. Con l’arrivo a Rovereto di don Roberto Marchesoni, don Corradi con don Enrico Nicolini dà inizio in Trentino all’esperienza di Gioventù Studentesca, portando cento studenti in campeggio estivo in val di Rabbi. Ma è ben presto richiamato a Trento per porsi a servizio dei giovani seminaristi. “Don Roberto non la prese bene, l’esperienza era proprio agli inizi e lui protestò vivacemente in Curia”, ricorda. In quel periodo inizia a studiare filosofia all’Università di Padova, laureandosi nel 1969. Su richiesta dei colleghi insegnanti di religione assume l’incarico di responsabile di Gioventù Studentesca, che poi si svilupperà nel movimento di Comunione e Liberazione, portando decine di giovani in missione in Calabria, in Aspromonte, e in Kossovo, che all’epoca era ancora nella Jugoslavia del maresciallo Tito. “Ho imparato l’importanza della presenza e della testimonianza: vale più di tante cose, testimoniare”.
Dopo una parentesi di un anno all’Istituto d’Arte, dal 1974 al 1996 è insegnante di religione al liceo Prati di Trento. “Avviai la proposta dei campeggi estivi in val San Nicolò e nei pressi di Gardeccia e, per i maggiorenni e per chi aveva fatto la maturità, un’esperienza estiva – in cui ho sempre creduto – portando i ragazzi un anno in Bolivia, un altro anno in Brasile, poi in Argentina, in Kenya, in Thailandia in un lebbrosario”.
Uomo e prete in movimento e “di” movimento, si è reso sempre disponibile dove chiamato: Gs e Cl, gli scout, il Rinnovamento dello Spirito, i Neocatecumenali, gli universitari cattolici della Fuci: non dimenticando durante il suo servizio diocesano in parrocchia e nel mondo universitario di approfondire problematiche di teologia e storia, interessandosi in particolare dei rapporti tra episcopati e regimi comunisti in Polonia e della condizione degli Uniati, cattolici orientali di rito greco bizantino. “Forse questo mi impedisce di essere tutto in un movimento – dice -, ma io vedo spazio per tutti i movimenti, nella Chiesa. Tutti hanno un sentire particolare che risponde a una vocazione”.
Don Gianfranco, come hai interpretato il tuo ruolo nella scuola, in anni, soprattutto i primi, che erano fortemente marcati dalle ideologie?
“Al Ginnasio parlavo del Libro, della Bibbia. Il primo anno di liceo proponevo le domande di fondo: chi sono? perché sono? che senso ha la mia vita? Sono le domande chi mi facevo anch’io. In seconda liceo la storia delle religioni. E l’ultimo anno il Cristianesimo”.
Perché l’ultimo anno?
Qualcuno lo chiedeva e io rispondevo: Siete troppo giovani, dovete maturare l’esperienza e vederla con più maturità, facendola vostra. Scrivevo sulla lavagna: Chi chiama? Chi è chiamato? A che cosa? Come? Il cristianesimo è una chiamata, più o meno cosciente”.
Hai aiutato tanti a trovare una risposta?
Non so dirlo, qualcuno è diventato prete. Non sono riuscito a rovinare tutte le vocazioni! Ho sempre parlato di chiamata per tutti, non ho mai voluto fare proselitismo.
In anticipo su papa Francesco…
Ognuno è chiamato: l’importante è che capisca qual è il suo posto, il suo valore, la sua responsabilità.
Nella scuola, negli anni di più acceso scontro ideologico, come era il rapporto con i colleghi insegnanti?
Sempre improntato al rispetto. Anche da parte di chi si proclamavo di ultra-sinistra. L’unica lamentela, da parte di un collega: Perché non sei mai con noi? Gli risposi: Qui nella scuola, siete più importanti voi, o i ragazzi? Tacque subito. All’intervallo veniva sempre qualche ragazzo che voleva parlarmi. Non credo di aver creato distanza nei rapporti con i ragazzi.
Hai “recuperato” il rapporto con i docenti con il tuo servizio nell’Aimc, l’associazione dei maestri cattolici, e nell’Uciim (Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi).
Era un’opportunità per portare avanti il discorso dei valori, come portarli ai ragazzi. Da assistente di queste associazioni tentai di coinvolgere i miei colleghi sacerdoti, girai molto sul territorio, ma con scarso successo: mi resi conto che avevano già troppi impegni pastorali; e lo riconoscevano.
La scuola è il terreno dei laici.
Prima e anche adesso. Allora, per il prete sembrava quasi un dovere: ma guai al doverismo! Per il laico non è così. Ma non occorrono tante parole. Non conta l’appartenenza a, ma la testimonianza di. Cito spesso un passaggio del libro di Camus “La peste”: “Quello che mi dici, mi richiama molto. Ma quello che tu sei, mi rimbomba dentro”. Uno può anche essere limitato, ma se testimonia valori, questi sono appetibili.
Ti spiace che queste associazioni siano un po’ in difficoltà?
È una situazione generalizzata di crisi dell’associazionismo. Ma vedo anche segni di ripresa.
Sei stato uno dei “preti con lo zaino”, per dirla con il libro di don Bepi Grosselli sui sacerdoti trentini accompagnatori in montagna.
Mi piaceva far notare il bello. Durante le escursioni qualche studente mi parlava di greco, di latino. E io gli dicevo: Ma guardate che fiori, guardate che genzianella di Koch… Gott sei dank.
Una spiritualità della montagna e della strada, che hai affinato facendo l’assistente di gruppi scout.
Oltre ai due turni di campeggio per il Prati, partecipavo alla Route con gli scout, al loro campeggio invernale. E poi i pellegrinaggi: otto volte a Santiago de Compostela, a Lourdes sempre con gli scout, a Chestochowa…
La Chiesa ha avviato un cammino sinodale. Cosa ha rappresentato per te la Chiesa?
La Chiesa dovrebbe essere il popolo di Dio in cammino, dove ognuno ha una sua responsabilità specifica, dove ognuno è responsabile non tanto della crescita numerica, ma della sensibilità di risposta a un Dio che si fa uomo, muore, e dice a Maria di Magdala di portare il lieto annuncio della Resurrezione. Questo dovrebbe essere la Chiesa. Ma c’è da camminare parecchio. Dovrebbe esserci più consapevolezza di stare collaborando all’amore di Dio, più gioia. Invece c’è stato parecchio tempo di doverismo.
Don Gianfranco, il tuo segreto per invecchiare bene?
Mettersi a disposizione, quello che ho cercato di fare anche dopo il pensionamento.
Grazie Augusto, un bellissimo ritratto di un uomo che ha segnato la crescita personale e culturale di molte ragazze e ragazzi trentini. Il passaggio sulla maturità necessaria a capire il messaggio che ha voluto trasmettere è fondamentale: non tutti erano pronti a comprenderlo, e mi metto tra questi, ma nel corso del tempo il seme ha messo radici. Ciò che ho apprezzato di più del suo modo di “insegnare la religione” è stato l’approccio discreto, il creare quel sano dubbio che porta alla riflessione. Auguri di cuore da uno studente!