Proteste, squilibri sociali e violenze: sull’altare del grande spettacolo mondiale del calcio, il governo brasiliano ha sacrificato investimenti nella salute, nell’educazione, nell’abitazione
Con la sfida tra le Nazionali di Brasile e Croazia (diretta televisiva alle ore 17, le 22 in Italia) si aprirà il 12 giugno la Coppa del Mondo di calcio, nel paese dove sono nati i più grandi campioni, dove il calcio ha sempre fatto rima con allegria, canti e colore. È ancora così? In un Paese dalle mille contraddizioni, una larga fetta di popolazione protesta duramente contro gli investimenti dirottati sui grandi eventi per chiedere istruzione, salute e sviluppo sostenibile.
La testimonianza di padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata in Brasile, che opera nella diocesi di Roraima, in Amazzonia.
Tutti hanno l’impressione che la nazione brasiliana sia unanime nell’applaudire il prossimo evento della Coppa del mondo, ma questo non è vero, anche se il governo brasiliano e i media internazionali vogliono far credere l’opposto, soprattutto a chi vive dall’altra parte del mondo.
La realtà che la nazione brasiliana vive è ben diversa da quella di un paese emergente dove tutto si svolge come se fossimo in un paese delle meraviglie: la parola d´ordine è sviluppo a tutti i costi, non importa il prezzo che il popolo brasiliano pagherà per lo meno per altri due anni, fino alle prossime olimpiadi di Rio de Janeiro.
Quello che si nota vivendo tra la gente, e qualche osservatore più acuto l’ha già notato e anche scritto, è che la Coppa è una festa quando viene giocata fuori del proprio paese. Ben diversa è la realtà quando si è i padroni di casa e hai la FIFA, la federazione internazionale del calcio, che ti fa sentire il fiato sul collo, pressandoti con le sue esigenze e soprattutto con i tempi di consegna delle strutture; il tutto per far funzionare l’ingranaggio della macchina del neo liberismo e del consumismo più sfrenato che non bada a spese e soprattutto non vuole essere intralciata o fermata da burocrazie di governo.
In realtà, sull’altare del grande spettacolo mondiale del calcio, il governo brasiliano in questi ultimi anni ha sacrificato non pochi investimenti tagliando sulle spese della salute, dell’educazione, del trasporto, dell’abitazione, e investendo su opere faraoniche come stadi, infrastrutture aeroportuali e stradali di cui non si vede l’utilità concreta per gli anni a venire.
A questo si sono aggiunte alcune operazioni il cui effetto ed impatto sociale è già visibile, come la deportazione in massa di interi quartieri ed il conseguente sradicamento culturale e la crescita della criminalità urbana. Non di minore impatto è la pulizia etnica, la cura estetica operata sulle grandi città prendendo di mira interi quartieri come le “cracolandie”, la gente di strada, i poveri e i senza fissa dimora, per lasciare spazio al consumismo più sfrenato e naturalmente al turismo sessuale e al traffico di esseri umani: una realtà denunciata dalla Conferenza Nazionale dei Religiosi in collaborazione con i vescovi e la cui campagna è approdata il 20 maggio scorso anche in Vaticano (la campagna Play for Life – Gioca per la vita, denuncia la tratta ed è promossa da Talitha Kum, la Rete internazionale della vita consacrata contro la tratta di persone, ndr)
Ma vi sono altri aspetti nascosti come l’eliminazione del commercio informale, caratteristico nelle feste popolari e nei grandi eventi, dal quale molte famiglie traggono la loro sussistenza e che ora viene impedito dalla burocrazia, dalle esigenze commerciali degli sponsor e dalla stessa FIFA; non potendo vendere i loro prodotti, molte persone non arriveranno più a fine mese e non avranno il necessario per mangiare e poter educare i propri figli.
Non meno importante è la questione della sicurezza, affidata ad una delle polizie più impreparate e cruente del mondo, più volte denunciata da organizzazioni non governative e dalla stessa ONU per l’uso frequente della violenza. A loro il governo ha affiancato l´esercito, con l’intento di sedare eventuali manifestazioni e mantenere l’ordine a qualsiasi costo, trasformando così la società brasiliana in una grande caserma dove tutto è scandito dal militarismo e dove non vi è certamente posto per la tutela dei diritti umani e soprattutto per le persone socialmente più a rischio.
C’è da chiedersi quale sarà il prezzo di questa cosmesi mondiale che trova alleati anche nelle file dei movimenti sociali, dei sindacati e delle stesse comunità cristiane abbagliate dal falso discorso dello sviluppo che giustifica e presenta come buone le grandi opere: come la costruzione di dighe delle quali sarà disseminata l’Amazzonia senza chiedere il permesso ai suoi abitanti, i popoli nativi, gli indigeni, gli abitanti dei fiumi, perché, è bene dirlo, si continua a considerare l’Amazzonia come il santuario dell’ecosistema mondiale, o come un magazzino di risorse energetiche, ma ci si dimentica che l’Amazzonia o le “Amazzonie” o la “Pan Amazzonia”, che abbraccia ben sette nazioni diverse, è la culla di molti popoli, di culture millenarie che ancor oggi la considerano come la loro madre e che per questo non comprendono la logica del nostro mercantilismo.
Ma in fondo con i comitati sorti nelle dodici città sedi del Campionato del mondo ci chiediamo: “La coppa è per chi e per che cosa?” (Copa pra quem e para que?). Forse la risposta la avremo dopo i mondiali, ma quello che è certo, è che per la nazione brasiliana e per il popolo che lotta per poter sopravvivere non sarà una festa, ma semplicemente la proiezione di un Brasile utopico che si troverà ancora una volta a fare i conti con i suoi grandi squilibri sociali e soprattutto a dover pagare il conto del mito di grandezza delle oligarchie locali che cambiano il pelo, si modernizzano, ma in fondo continuano a governare il paese.
Gianfranco Graziola, imc
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