La Resistenza (dimenticata) di Glicerio Riccamboni

Glicerio Riccamboni

Il popolo italiano, laico e cattolico, dai vertici alla base, si piegò presto al fascismo, alle sue barbare leggi razziali, alle sue feroci guerre coloniali, alle sue devastanti invasioni. Il fascismo cadde soltanto il 25 luglio dopo che il 9 luglio erano sbarcate in Sicilia le truppe anglo-americane. I soldati italiani si arresero in massa a loro, precipitosamente. Una minoranza di resistenti italiani affiancò poi i soldati angloamericani per due anni fino alla Liberazione del 25 aprile 1945. Che il presidente dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia), Gianfranco Pagliarulo, faccia adesso, il 25 aprile, l’antiamericano è tragicomico. Vuol dire fingere di non sapere come il popolo italiano riuscì a liberarsi dal fascismo e dal nazismo dopo che ne era stato servo e complice. Per questo ricordare gli italiani che non furono servi e complici del fascismo e del nazismo è un dovere che non può mai venir meno.

Una bellissima e dimenticata figura di antifascista durante il fascismo (non dopo che cadde) è quella di Glicerio Riccamboni, professore roveretano, fervente cattolico. Grazie agli studi di due valenti storici, Fabrizio Rasera e Quinto Antonelli, possiamo continuare a ricordarlo. Antonelli ha, tra l’altro, dedicato a Riccamboni un denso profilo nel volume “Studenti e professori dell’Istituto Tecnico di Rovereto 1855-2005” (Osiride, 2011) al quale attingiamo.

Nato a Rovereto il 31 ottobre 1885, Riccamboni fu professore di tedesco in quell’Istituto tecnico “Regina Elena” che sotto l’Austria fu le “Reali” e oggi è il “Fontana”. Stimato e amato dagli studenti, fu anche studioso di glottologia e toponomastica. Pur tenendo famiglia (quattro figli, Tullia, Carmela, Ivo, Antonio e la moglie Antonietta Anghebeni), pur sapendo cosa rischiava, rimase sempre, dentro e fuori la scuola, un inflessibile antifascista. “Era l’unico insegnante dell’Istituto che non abbiamo mai visto indossare la divisa fascista e nemmeno la camicia nera”, ricordò una studentessa di allora, Ilda Giordani.

Anticonvenzionale e molto religioso (era stato anche militante del Partito Popolare prima che fosse sciolto), si scontrò ripetutamente con il preside Alessandro Canestrini, zelante fascista, che continuava ad ammonirlo e nelle annuali valutazioni inviate al Provveditore agli studi di Trento non mancava di segnalare le ostinate ribellioni di quel professore che così descriveva: “Riccamboni è un individuo poco equilibrato, per atavismo. Ha una specie di mania religioso-politica…”. Quella “mania” fu invece così ricordata dal professore Ettore Zucchelli: “La saldissima fede cristiana gli disse fin da principio… che il fascismo era da respingere ancor prima di analizzarlo e di cercarne le cause e le origini”. Per tutti gli anni ’30 Riccamboni rimarrà fermo nel suo antifascismo e subirà continui richiami e ammonizioni da parte delle autorità scolastiche.

In una lettera riservata del preside Canestrini al Riccamboni, del 15 marzo 1940, sfuggita alla “pulizia” dell’archivio scolastico operata all’indomani della Liberazione, messa a disposizione di Antonelli, con grande onestà intellettuale, dall’avvocato Sandro Canestrini, figlio del preside e personalità di primo piano della vita civile e politica del dopoguerra e dell’antifascismo militante, è scritto: “Vengo informato: 1. Che non volete al vostro ingresso in classe che uno scolaro dia “l’attenti”; 2. Che non volete che gli alunni vi facciano il saluto romano e che mai lo ricambiate; 3. Che parlate poco simpaticamente in classe delle organizzazioni giovanili fasciste; 4. Che non volete che gli alunni usino con Voi il ‘voi’; 5. Che parlate in classe di cose che non riguardano le lezioni e qualche volta anche di politica facendo delle critiche al regime con grande indignazione degli alunni per questo Vostro atteggiamento. Desidero su tutti questi punti le vostre giustificazioni scritte”. Figurarsi. E così quell’intransigente insegnante venne trasferito in un istituto tecnico di Chioggia dove rimase fino al ’43. Anche il suo stipendio, indispensabile per la sua numerosa famiglia, subì tagli e rinvii nella corresponsione.

Dopo il 25 luglio, con la caduta del fascismo, fu reintegrato nell’istituto roveretano. Ma con l’8 settembre e l’occupazione nazista del Trentino, tornarono anche i fascisti. Riccamboni, mentre era nella Biblioteca parrocchiale di san Marco a Rovereto, di cui era direttore, fu aggredito a pugni e schiaffi da una banda di fascisti fino a perdere i sensi. Il suo occhio sinistro fu lesionato irrimediabilmente. Nella primavera del ’45 finì nel lager di Bolzano. Con la Liberazione tornò a Rovereto. Qui morì il 20 marzo 1949. Una storia di antifascismo di rara grandezza la sua. Inspiegabilmente dimenticata. Perché ricordiamo tanti antifascisti dell’ultima ora e dimentichiamo un antifascista della prima ora così esemplare come Glicerio Riccamboni?

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