Le Acli ci vogliono tutti politici

La fiducia nella preghiera e nel dialogo sul fronte della guerra alimentano in questi giorni di fine-emergenza sanitaria un irresistibile desiderio di rimetterci “in movimento”. Proprio così le Acli trentine hanno intitolato sabato scorso il loro prezioso convegno primaverile, sbrigativamente e superficialmente interpretato come un lancio precoce della corsa elettorale. La pista (ad ostacoli) battuta con coerenza dalle ACLI è infatti quella più lunga e graduale della formazione e della coscientizzazione, fondata sull’esigenza di “Ri-costruire comunità”, come diceva il motto dei precedenti incontri territoriali.

Sarebbe anche antistorico pensare che la radicata associazione dei lavoratori punti a sedersi al tavolo di una coalizione di centrosinistra autonomista (un tavolo già molto affollato in Trentino dopo l’esordio dell’aggregazione Campobase, il dinamismo di Azione, la ripartenza di Futura, lo scalpitare del Patt già a congresso…) o che stia tirando una “volata lunga” al proprio presidente. Quando in passato esponenti aclisti si erano gettati nella mischia partitica (si pensi ad Aldo Marzari o Carlo Alessandrini), la discesa in campo era avvenuta a conclusione del servizio ecclesiale ed in termini personali, per non rinnovare gli errori di un collateralismo del passato.

Merito di Luca Oliver, applaudito sabato dagli esponenti politici come uditori alla Sala della Cooperazione, è stato quello di individuare lucidamente molti elementi di novità con cui preparare il 2023 dal doppio appuntamento elettorale, nazionale e provinciale. “La comunità deve tornare ad essere un serbatoio di idee e di valori da inserire nell’agenda politica – ha detto in sostanza Oliver – altrimenti le istituzioni si ridurranno a semplici amministrazioni”. E dall’altra parte “è necessario che anche la politica torni nella comunità, cedendo una parte della sua sovranità, aprendosi ai cittadini attraverso nuovi strumenti inclusivi e partecipativi per alimentarsi di nuove energie civiche”.

Una sintesi impegnativa perfettamente allineata con quanto espresso sabato dall’arcivescovo Lauro che invita “i politici a riprendere il contatto con la comunità”, evitando i rischi di un’élite che cura il proprio orto mentre i cittadini stanno fuori “a fare soltanto il tifo”. “Siamo tutti politici”, cioè chiamati a contribuire dal basso all’elaborazione del bene comune a favore della polis, è stata la frase-mantra emersa dai gruppi di lavoro. Lo stesso don Lauro l’ha rilanciata come motore personale e comunitario che riaccenda a pieni giri la partecipazione dopo l’esperienza della pandemia “che non dobbiamo peraltro sprecare”.

Di cosa riempire il serbatoio, in vista del 2023? Di questa visione comunitaria – non elitaria – della politica, dalla quale soltanto potranno uscire volti credibili (possibilmente anche più giovani dell’attuale media regionale) da mettere in lista. Di una visione retrospettiva che valorizza il cambio di passo (condivisione, sobrietà, sostenibilità non solo ambientale…) imposto dalla pandemia e ora dalle “scelte di pace col portafoglio” (vedi economia civile). Di un atteggiamento realista che riconosce le difficoltà di questa legislatura (la squadra esordiente di Fugatti ha impattato con la tempesta Vaia, con il Covid e la guerra…), stimolando ogni coalizione a rinnovarsi. Che tutti si mettano davvero in movimento – anche gli avversari politici – è un beneficio collettivo.

Infine, c’è anche bisogno di un rapporto nuovo tra partiti, poteri economici e mondi vitali: la conflittuale crisi attraversata in questi giorni dai vertici dei cugini altoatesini della SVP dovrebbe suonare come un salutare campanello d’allarme. Anche per noi. Insomma, per non essere un’altra falsa partenza questo movimento verso le urne 2023 dovrebbe esporsi anche a qualche rischio coraggioso come quello che guidò Alcide Degasperi nella ricostruzione postbellica. Lo intraprese “come una missione ispirata dalla fede”, come testimoniava la figlia Maria Romana che da oggi guarda dal Cielo anche la nostra cinquantennale Autonomia.

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