Quel che sta succedendo con l’aggressione della Russia all’Ucraina non rientra nella “normalità” per quanto terribile e ripugnante del prevalere degli interessi da grande potenza. Segna una svolta rispetto ad un sistema di equilibri internazionali che sembrava stabilizzato, almeno sull’area europea, e di conseguenza chiede un cambio di passo e di cultura anche al nostro Paese che in questo spazio si colloca.
Le conseguenze di tutto ciò sono molte. C’è sicuramente un problema di riscoperta della politica di sicurezza, il che non vuol dire fare i guerrafondai, ma semplicemente capire che se agli appetiti espansionistici dei nuovi imperialismi non si oppone una deterrenza si scivolerà su una china pericolosa. Gli imperialismi sono come le ciliegie: uno tira l’altro, se non si ferma quello russo, rinasceranno le tentazioni in quella direzione negli USA e la Cina non sta certo a guardare, ma poi ci sono gli imperialismi più “piccoli”, quello turco, quello indiano, quello iraniano…
C’è altrettanto un problema di ridimensionamento della distribuzione nelle interrelazioni economiche. Voci autorevoli hanno recentemente attirato l’attenzione su questo aspetto parlando in sedi relativamente specialistiche, dal sottosegretario Garofoli al governatore Visco. Dipende dalla competizione bellica, ma anche dall’evoluzione delle tecnologie. Si fa ad esempio il caso della conversione dell’industria automobilistica al motore elettrico il che taglierà migliaia di posti di lavoro nella componentistica per gli attuali motori termici, ed è un settore importante della nostra industria. Ma è solo uno dei tanti casi che si potrebbero fare.
Infine c’è il tema delle ricadute di questo “cambio di clima” sulle nostre reti di relazione sociale. Come sempre le angosce verso il futuro, oggi meno fumose di quanto erano prima della grande pandemia, rilanciano tanto le fughe nell’individualismo egoistico quanto quello in un farlocco solidarismo di clan.
In questa situazione ci sarebbe bisogno di una classe dirigente, a cominciare da quella politica, che desse prova di maturità serrando le fila e lasciandosi alle spalle i decenni delle intemerate a vanvera. Ora se guardiamo al fronte della politica non c’è da essere fiduciosi. La larga maggioranza che regge l’attuale governo di semi-solidarietà nazionale si sfrangia ogni giorno di più. Delle pulsioni di Salvini ad inseguire ogni sbandamento di opinione pubblica, sempre in nome di alti principi ovviamente, si parla in continuazione: siamo andati dalle posizioni contro le norme per contenere l’epidemia (in nome della libertà) a quelle contro l’invio di armi all’Ucraina (in nome del Papa, il che è tutto dire).
Tutti vedono che si tratta della reazione alla crescita costante della Meloni che ormai lo ha spodestato come colui che sarebbe alla testa del partito più forte del centrodestra. Il maldestro tentativo di un Berlusconi impegnato a sceneggiare l’ennesimo dei suoi innamoramenti di incoronarlo vero leader lascia il tempo che trova, perché non è neppure in grado di portargli tutti i voti di FI ormai in chiare difficoltà.
Sul fronte opposto abbiamo l’incredibile performance di Giuseppe Conte che non avendo né proposte politiche convincenti, né ormai più credibilità personale, si è lanciato nell’impresa di far pesare quello che ritiene essere ancora il partito parlamentare di maggioranza relativa mettendo i bastoni fra le ruote di Draghi con l’opposizione all’incremento delle nostre spese militari secondo un protocollo che lui stesso sottoscrisse quando era a capo dei suoi scassati governi.
Giusto per capire di che pasta è l’uomo, basti guardare all’entusiasmo con cui ha salutato la sua (ri)elezione a presidente M5S col plebiscito del 94,19% dei consensi. Peccato che abbia omesso di dire che era il candidato unico (persino Putin si fa eleggere avendo qualche avversario sia pure di paglia), che hanno votato 59.047 iscritti su 130.570 aventi diritti, il che segnala quanto meno una crisi di partecipazione nel movimento su cui non spende parola (oltre tutto non molti mesi fa, ad agosto, quando si era votato sempre per il presidente candidato unico erano andati alle urne elettroniche in 67 mila…).
Gestire la nostra presenza nel sistema europeo ed internazionale in questo momento difficile, con mille nuove difficoltà (il PNRR arranca per una lunga serie di ragioni) dovendo fronteggiare una situazione politica che si sta sfarinando per l’incombere di scadenze elettorali diventa un’impresa titanica. Eppure dobbiamo sperare che Draghi e le forze politiche e sociali responsabili (che ci sono) riescano a chiamare a raccolta un Paese che non può accettare di finire nei pasticci per le ambizioni di alcuni politici reduci di un mondo che non c’è più.
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