Ci voleva un cinematografico attacco dei Navy Seals americani per riportare l’attenzione sulla Siria. L’uccisione del nuovo capo dell’Isis, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Quraishi, da parte dei corpi speciali Usa ha di colpo riproposto l’interrogativo di cosa stia avvenendo nel grande e tormentato Paese mediorientale. Va precisato che l’operazione dei Navy Seals è avvenuta nel nord-ovest della Siria nella provincia di Idlib, un territorio ai confini con la Turchia. In essa operano decine di gruppi ribelli e terroristici, che impediscono alle truppe del regime di Damasco di riprendere il controllo di questa ampia area. L’intervento americano non avrebbe quindi senso, opponendosi il governo Usa al regime del presidente siriano, Bashar al-Assad, e non lo si collega ad un altro episodio recente che è avvenuto invece nella parte opposta, nel nord-est del Paese. Anche questa porzione di territorio non è controllata da Assad, ma dalle milizie curde delle Forze Democratiche Siriane che combattono per ottenere l’autonomia completa della loro provincia. Per di più i curdi sono grandi alleati degli americani, avendo combattuto al loro fianco contro lo Stato Islamico a quel tempo capeggiato dal sanguinario Abu Bakr al-Baghdadi, ucciso anch’esso alcuni anni fa da un analogo intervento dei Navy Seals. Ma quello che più importa agli americani è che i curdi detengono nelle loro prigioni migliaia di terroristi dell’Isis, fra cui i cosiddetti “foreign fighters”, cioè i combattenti che vengono dall’Europa e perfino dagli Usa.
Come è facile immaginare, nessun governo li rivuole indietro e quindi tutti sono ben lieti che essi rimangano nelle carceri dei curdi siriani. Proprio alcune settimane fa, il 20 gennaio, un gruppo armato dell’Isis ha attaccato la più grande prigione curda a Hasakeh facendo fuggire alcuni dei 3.500 detenuti. Pur essendo stati respinti dai miliziani curdi, questa operazione ha destato enorme allarme a Washington e nelle capitali europee per almeno due ragioni: la prima è che l’Isis non è per nulla scomparso e la seconda il timore della liberazione di terroristi occidentali. Di qui l’avvertimento a tutte le parti in causa che l’amministrazione Usa ha la capacità di intervenire ovunque, a cominciare dall’uccisione dei vertici dell’Isis in zone in cui essi i sentono protetti. Questi episodi avvengono in un Paese, la Siria, che è tuttora in una situazione di conflitto civile strisciante. Esso è di fatto un “Paese fallito”. A nord una fascia di territorio è stata annessa dalla Turchia con la scusa di creare una zona cuscinetto per bloccare le incursioni dei curdi, nemici storici di Ankara.
I russi per parte loro, nel sostenere il presidente siriano, hanno riaffermato ed esteso il loro controllo su un paio di porti siriani che si affacciano nel Mediterraneo. Milizie e centri militari iraniani circondano la capitale sia per sostenere il regime sciita di Assad, sia per mantenere i collegamenti con gli Hezbollah libanesi, nemici giurati di Israele.
I curdi siriani, come appena ricordato, sono ormai padroni dell’area a nordest e i gruppi terroristici sono insediati nel nord-ovest ad Idlib.
Insomma il solito guazzabuglio mediorientale nel quale a rimetterci di più sono i cittadini di quel Paese. Le statistiche delle agenzie dell’Onu sono ancora oggi drammatiche. Dopo quasi 11 anni di conflitto civile i profughi fuggiti all’estero sono 5,6 milioni, cui sono da aggiungere 6,7 milioni di persone che hanno abbandonato le loro abitazioni e si sono dirette in altre zone del Paese. Il tutto su una popolazione di soli 22 milioni di abitanti al momento dello scoppio della rivolta. I morti accertati sono 390 mila e gli scomparsi circa 230 mila. Un’autentica tragedia poco avvertita nel resto del mondo ed in particolare nella nostra Europa. Nessuno parla dell’enorme povertà che la guerra ha portato con sé e del collasso economico dell’intero Paese. L’unica cosa che interessa ai grandi attori esterni è di avere ottenuto qualche risultato vantaggioso in termini di influenza o di guadagno territoriale.
Pochi si pongono l’obiettivo di riprendere in mano il dossier siriano e di esercitare tutte le necessarie pressioni perché Assad se ne vada dal Paese e si inizi un processo di pacificazione generale. Prospettiva che ancora un paio d’anni fa sembrava raggiungibile, ma che con il passare del tempo diventa una vana speranza. La conseguenza è che l’instabilità e l’ingovernabilità della Siria rimarrà una spina nel fianco dell’intero Medio Oriente e anche dell’Europa. In questa precaria condizione interna, l’Idra del terrorismo e del fanatismo potrà facilmente tornare a manifestarsi. I segnali ci sono già tutti oggi.
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