Il segno di Romero

Il suo messaggio di pace e di fratellanza, nell’alveo evangelico, è più che mai valido e attuale

Quando Romero viene nominato arcivescovo di San Salvador, nel febbraio 1977, i notabili del governo e della classe egemone salvadoregna brindano ed accolgono con entusiasmo il nuovo prelato che ha fama di essere timido e tradizionalista. Ma il Salvador vive in quel frangente una repressione feroce e generalizzata che non risparmia i settori più esposti e impegnati della chiesa salvadoregna. Ed è l’assassinio di Rutilio Grande, gesuita che vive la pastorale accanto ai campesinos, a innestare in mons. Romero un cammino, che eg campesinos li stesso definisce di “conversione”. La chiesa non tace più, prende posizione davanti al popolo e i sicari e i loro mandanti (gli agrari, i militari, i politici conniventi) lo dovranno sapere. Romero crea un’organizzazione per la difesa dei diritti umani, il “Soccorso giuridico dell’arcivescovado” che trova in una donna formidabile come Marianella Garcia il suo fulcro e la spina dorsale. Cura l’assistenza legale di quelli che sono oggetto di violenze, procede alla denuncia dei sequestri, soccorre le famiglie dei desaparecidos. La diocesi di San Salvador diventa in breve tempo un rifugio per tutti i perseguitati dal regime civile e militare stretto in oscure congreghe. Il giornale diocesano d’informazione “Orientacion” è meticoloso nel riportare ogni settimana i dati raccolti dei desaparecidos e diventa l’unica voce libera in tutto il Salvador insieme a Radio “Isax” che trasmette puntualmente le omelie di Monsignore. Molti radioascoltatori possono così –insieme alle 4mila persone che ogni domenica stipano la cattedrale- unirsi all’ascolto e alla riflessione della Parola e della liturgia insieme a una puntuale informazione sulla situazione reale del Salvador.

L’azione pastorale evidenzia una chiesa di San Salvador sempre più identificata col suo popolo. Così si esprime Romero: “Vi è persecuzione contro la chiesa perché esiste persecuzione contro il popolo che cerca la sua liberazione. Ma la chiesa di Gesù non può separare il proprio destino da quello del popolo oppresso che anela il suo esodo per una terra nuova e un uomo nuovo”. Si tratta di dare voce a coloro che non hanno voce o che sono tacitati, costretti al silenzio: “Il grido di liberazione di questo popolo è clamore che sale fino a Dio e che ormai niente e nessuno potrà fermare”.

La visione di mons. Romero sulla violenza è chiara. E’ decisa la condanna delle strutture economiche e sociali violente perché generano povertà e morte prematura e ingiusta per molti. E’ persuaso che la violenza strutturale attua un rincrudimento della violenza dell’esercito e dei gruppi paramilitari che difendono i privilegi di pochi e genera anche la violenza delle rivolte popolari. Questa , secondo Romero, può essere arbitraria quando si manifesta sotto forma di terrorismo che produce vittime innocenti ma può essere legittima quando, nel caso di una palese tirannide, non vi è altro modo per liberarsi dalla dittatura e di conseguenza dall’oppressione.

E’ a questo punto che si innesca la persecuzione contro la chiesa. Le parole di mons. Romero sono profetiche: “ Mi rallegro, fratelli, che abbiano assassinato dei sacerdoti…Sarebbe molto triste che mentre si sta massacrando orribilmente il popolo non potessimo contare sacerdoti tra le vittime. E’ segno che la chiesa si è incarnata veramente nei problemi del popolo”. Lo scontro tra l’arcidiocesi e il governo oligarchico diventa acuto. Romero è accusato di non fare il vescovo ma il capopopolo. Risponde che la sua condizione di “pastore di un popolo che soffre ingiustizia” gli impone di difendere la gente: “Me lo impone il vangelo per il quale sono disposto ad affrontare il processo e il carcere”. Cominciano le intimidazioni e le minacce di morte. Romero sa di essere nel mirino degli “squadroni della morte” ma non per questo rinuncia alle sue denunce, puntuali, precise, circostanziate. E’ consapevole che non è possibile tacere, essere neutrali. Precisa: “Con grande chiarezza vediamo che in questo momento non è possibile la neutralità. O siamo a servizio della vita dei salvadoregni o siamo complici della loro morte. O crediamo in un Dio della vita o seguiamo gli idoli di morte”. E’ la dimensione del martirio che si affaccia all’orizzonte temporale del vescovo Romero, come di tanti altri, in quegli anni, in America Latina. Osservava il teologo della liberazione Gustavo Gutierrez: “Il martirio è qualcosa che si trova ma che non si cerca”. E Luis Espinal, un gesuita, poco prima di essere assassinato per il suo impegno a fianco degli oppressi: “Il popolo non ha la vocazione al martirio. Quando la gente cade in combattimento lo fa con semplicità. Non bisogna dare la vita morendo, ma lavorando”.

Il 23 marzo 1980, il giorno prima della sua uccisione, Oscar Romero si rivolge ai militari invitandoli all’obiezione di coscienza: “Fratelli, appartenete al nostro stesso popolo e uccidete i vostri stessi fratelli contadini. Di fronte all’ordine di uccidere dato da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice: -Non uccidere! -. In nome di Dio dunque, in nome di questo popolo martoriato i cui lamenti ogni giorno più tumultuosi salgono al cielo, vi supplico, vi prego, vi ordino, in nome di Dio, cessi la repressione!”.

Oggi la chiesa salvadoregna più avvertita è impegnata nel tramandare soprattutto ai giovani la figura di mons. Romero e il suo insegnamento, nel conservarne la memoria. Le diseguaglianze sociali impediscono l’avvento di una democrazia sostanziale. Il suo messaggio di pace e di fratellanza, nell’alveo evangelico, è più che mai valido e attuale.

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